Triste destino quello del disegno di legge sulle riforme costituzionali. Al senato arrivò in aula proprio mentre il Pdl ordinava la serrata dei lavori parlamentari come forma di protesta preventiva contro la Cassazione – si era allora alla premessa della condanna a Berlusconi. E ieri, alla camera, i litiganti delle larghe intese si sono dovuti stringere attorno all’accordo per le riforme proprio mentre governo e maggioranza sembravano sul punto di cascare per le conseguenze, ancora, di quella condanna. Poi tutto è rientrato, prima il bluff del Cavaliere poi la fermezza del Pd. Ha prevalso l’inerzia dell’accordo, o nelle parole di Napolitano «la convivenza nazionale». Così l’abbraccio dei democratici e dei berlusconiani uniti per riscrivere la Costituzione è apparso un po’ meno surreale e un po’ più inquietante.

Si discute e si vota – a ritmi accelerati, con interventi nel merito ridotti al minimo ed emendamenti tutti bocciati – di una deroga alla procedura di revisione costituzionale. Il sì della camera è arrivato due mesi esatti dopo quello del senato, servirà un altro passaggio in ciascuno dei due rami del parlamento prima che il disegno di legge scritto dal governo entri in vigore. Ma prima la «pausa di riflessione», che al senato terminerà ad ottobre mentre la camera dovrà attendere per la nuova deliberazione fin quasi natale. Ci saranno ancora governo e maggioranza? È l’incognita maggiore ma non l’unica.

Trattandosi di legge costituzionale, infatti, se in uno dei due prossimi passaggi i favorevoli restassero sotto la soglia dei due terzi – ed è stato così sia al senato a luglio che alla camera ieri – un referendum potrebbe fermare sul nascere le velleità costituenti delle larghe intese. Bisogna guardare i numeri: in teoria la maggioranza Pd-Pdl-Scelta civica, con l’aggiunta della Lega al rimorchio, ha almeno cinquanta voti in più dei 420 necessari a Montecitorio per blindare la riforma. In pratica ieri si è fermata a 397 a causa dei moltissimi assenti nel Pdl (il 30% del gruppo, proprio come fu al senato) e a qualche defezione nel Pd dei deputati meno convinti dell’urgenza di cambiare la Costituzione.

È una speranza, un’altra è che il governo si perda prima: le riforme in effetti sono state immaginate più come causa che come effetto dell’esecutivo, in pratica una stampella. Ma tra lo scetticismo e il disinteresse il piano dei ministri Quagliariello e Franceschini lentamente procede e in settimana si risentirà parlare anche dei «saggi» del governo, che al ritorno dalle ferie dovranno pur presentare il frutto di quelle otto giornate in cui tra giugno e luglio hanno discusso di quali parti della costituzione cambiare.
Il disegno di legge approvato ieri lascia campo aperto. Il prossimo «comitato dei 42», senatori e deputati che dovrebbero sostituire le commissioni affari costituzionali, potrà spaziare nella prima e nella seconda parte della Costituzione. E dovrà farlo entro sei mesi sulla base di progetti di riforma costituzionale che verosimilmente il governo si prepara a presentare. Il lavoro costituente vero e proprio, dunque, finirà con l’essere delegato a palazzo Chigi. Le mediazioni saranno tutte attorno al tavolo del governo. Certo, il parlamento potrà dire la sua e i parlamentari (o almeno i capigruppo) potranno emendare, ma la preoccupazione per riforme imposte – presidenzialismo? premierato forte? – non è eccessiva solo ricordando quanto è stato già fatto per non nuocere alle larghe intese.

Per non inceppare il «cronoprogramma» del ministro Quagliariello, ai deputati non è stato consentito di cambiare neanche una virgola di quanto stabilito al senato, e tutto a colpi di maggioranza alla faccia delle «riforme condivise». In pratica per continuare a sperare di concludere per l’estate 2015 (ma poi ci sarebbero i referendum confermativi), in questa estate 2013 Pd e Pdl hanno rifiutato anche di introdurre la diretta web delle sedute del comitato.
A fare opposizione solo Sel e Cinque stelle. Ma i Cinque stelle in modo più plateale, anche a occupazione dei tetti conclusa. Ancora le magliette col simbolo del movimento e il richiamo alla Costituzione indossate da deputati e congiunti, sventolio di bandierine e seduta sospesa. Ma prima un eccesso di nervosismo nel gruppo Pdl e in quello di Scelta civica, caduti nelle provocazioni in stile leghista dei grillini (il gesto delle manette, le urla «ladri, ladri»). E nessuno dei deputati del Pd capace di rivolgere ai grillini la fredda critica di un ex, Adriano Zaccagnini: «I problemi non si risolvono fomentando gli istinti, diventando animali parlamentari». Pour cause: il Pd è almeno metà del problema.