Il linguaggio politico e anche quello istituzionale sono stati lungamente inquinati. Lo attestano una serie di trappole della lingua disseminate nello spazio pubblico dove, da tempo, la licenza di licenziare può essere tranquillamente presentata come sommo strumento di lotta alla disoccupazione, dove i corpi intermedi possono costituire un inutile intralcio alla volontà popolare e i diritti civili rappresentare un attacco alla famiglia tradizionale e ai suoi consolidati valori.

Questa mafia della lingua raggiunge il proprio apice quando si sente parlare di “riforme” e di “semplificazione”, posto che dietro tali nozioni, anche in concorso tra loro, sovente si legittima l’abuso e il sopruso dei più forti sui più deboli.

È ciò che sta avvenendo, oggi, nella pretesa semplificazione dei concorsi pubblici messa a punto dal neo-ministro Brunetta, il quale, poco dopo il proprio insediamento alla guida della Pubblica Amministrazione, ha sottolineato la necessità di riformare e semplificare le procedure concorsuali per garantire il merito.

In particolare, in base al nuovo Protocollo della Funzione pubblica (che modifica e aggiorna quello del 3 febbraio 2021 emanato in attuazione del Dpcm 14 gennaio 2021) nei concorsi è da valutare, in via preliminare, “il possesso di titoli specifici e di competenze sul servizio, tecniche e attitudinali, coerenti con il profilo professionale da reclutare concorsi pubblici”, sicché le nuove misure per lo svolgimento delle procedure prevedono “una fase di valutazione dei titoli legalmente riconosciuti ai fini dell’ammissione alle successive fasi concorsuali”, con la precisazione che “ i titoli e l’eventuale esperienza professionale, inclusi i titoli di servizio, possono concorrere alla formazione del punteggio finale” (art. 10, comma 1, lett. c), d.l. n. 44/2021).

Tale previsione, apparentemente neutra, valorizza oltremodo la formazione a pagamento e il business dei master di primo e secondo livello mentre penalizza fortissimamente neo-diplomati e neo-laureati, i quali pure rappresentano, secondo tutte le statistiche, il segmento più fragile del mercato del lavoro, specie nelle aree del Paese economicamente meno sviluppate.

Questi ultimi, impossibilitati per ragioni economiche o semplicemente anagrafiche ad esibire “titoli” e non meglio precisate “esperienze professionali”, rischiano di essere indebitamente estromessi dai concorsi della PA cui avrebbero tutto il diritto di accedere e pertanto, nei fatti, gravemente discriminati.

La pretesa “semplificazione”, oltre a costituire una surrettizia abolizione del valore legale del titolo di studio, calpesta ogni principio di imparzialità, oggettività e trasparenza delle procedure di accesso al pubblico impiego, rappresentando un’intollerabile ingiustizia.  L’igiene della lingua e quella del diritto esigono un repentino passo indietro. Perché all’oggi il governo dei migliori sta compiendo un altro passo falso.

L’autore è responsabile nazionale lavoro – Sinistra Italiana