In un’aula del senato vuota e distratta ieri è andata in scena una nuova giornata, la seconda, di dibattito sulla riforma del senato. Ma siamo ancora ai posizionamenti preliminari. Purissima pretattica. Una giornata intera di parallelo e indefesso lavorio degli sherpa – non è bastata a chiarire quale sarà il vero testo della riforma. Il termine per la presentazione degli emendamenti si è chiuso ieri sera. Ne è arrivata una valanga.

Sarebbero 7mila in tutto, 5500 arrivano da Sel. I 5 stelle ne hanno presentati 200. La Lega, in teoria della partita ma da due giorni durissima in aula (ha parlato di «riforma farsa»), 100. Fra i punti, l’elezione diretta del senato federale, elezione a suffragio universale del presidente della repubblica, l’abbassamento delle firme per referendum e leggi di iniziativa popolare, introduzione del referendum deliberativo. Forza Italia ne ha presentati 15, ma i dissidenti fanno storia a parte: Augusto Minzolini da solo ne ha presentato 34. Mille dai malpancisti forzisti e del Gal. Solo 14 dall’Ncd 14, 48 dal Pd, ma i dissidenti dem ne hanno scritti altri 55.

Ieri dopo pranzo la ministra Boschi ha incontrato i relatori per fare un punto. Sul tavolo delle modifiche possibili, l’ampliamento delle funzioni del nuovo senato alle regole del bilancio, ampliamento del numero dei grandi elettori del presidente della repubblica ((è del senatore Miguel Gotor la proposta di ampliamento ai 73 europarlamentari, ovviando così al rischio che il partito vincente alla camera possa eleggere capo dello stato, membri del Csm e della Consulta), più il delicato capitolo dell’immunità. L’iter della legge rallenta, ma, ha fatto sapere Renzi, «è il prezzo da pagare per una riforma di questa importanza».

Intanto a casa dem si sfiamma, almeno per il momento, la vicenda dei dissidenti. «Cacciarli? Ma no. Non vogliamo rinunciare a dieci senatori. In caso di voto contrario a quello del partito, ci affideremo alla coscienza di ciascuno. E poi oggi (ieri, ndr) i dissidenti non hanno voluto votare no al testo uscito dalla commissione: il che è chiaramente un segno di disponibilità al dialogo». Il vicepresidente dei senatori Pd Giorgio Tonini legge così la non partecipazione al voto dei ribelli dem all’assemblea di ieri mattina (tranne Massimo Mucchetti, che si è astenuto). È finita con 86 sì. Ma la senatrice dissidente Erica D’Adda spiega la sua non partecipazione al voto con la motivazione opposta a quella che dà Tonini: «Perché avremmo dovuto votare su un testo che sta per essere emendato? Così è stato un voto di disciplina di partito. E io invece alla fine voterò secondo coscienza». Alla riunione, il capogruppo Zanda ha cercato di suturare lo strappo che si è aperto nel gruppo Pd. Solidale con chi è stato trattato (da Renzi, sul Corriere della sera) come uno che «ha nostalgia dell’indennità», d’altro canto «nessuno deve mettere in dubbio la fedeltà costituzionale di un suo collega, è inaccettabile sostenere che la maggioranza del gruppo ha abbracciato una linea antidemocratica». I senatori ribelli abbassino i toni se vogliono ottenere l’abbassamento dei toni contro di loro. «Non ci cacciano, è ovvio», ragiona Corradino Mineo: senza noi non c’è maggioranza al senato».

Quando il manifesto chiude le pagine Renzi inizia l’assemblea con deputati e senatori sul programma di mille giorni. Ma per le minoranze a casa dem tira un’ariaccia. I bersaniani, che sul nuovo senato si sono allineati disponendosi ad un lavoro emendativo, capiscono che gli avvisi contro ribelli, poi smentiti, sono una «moral suasion» al loro indirizzo. Sul futuro passaggio dell’Italicum a palazzo Madama. Dove i dissensi dem sono molto più ampi rispetto ai 14-16 di oggi.