Se il referendum oppositivo alla riforma costituzionale è presentato da Renzi come un plebiscito su se steso, naturale che il prossimo e ultimo passaggio parlamentare della legge di revisione – che secondo la Costituzione dovrebbe offrire spazio ai ripensamenti (si parla di «pausa di riflessione») – sia immaginato come una velocissima ratifica. E così sarà. La seconda e definitiva lettura alla camera del disegno di legge costituzionale Renzi-Boschi – che cambia oltre un terzo della Carta – arriverà non prima di metà aprile (Montecitorio ha chiuso lunedì la prima lettura), dunque è perfettamente inutile che il senato si affretti. Accade però che in questo passaggio sia indispensabile la maggioranza assoluta, che non ci sarebbe se uno solo dei gruppi che affiancano il Pd al senato decidesse di fare uno sgambetto al governo: i verdiniani di Ala, gli alfaniani dell’Ncd o filo renziani del gruppo misto e del gruppo delle autonomie. Per evitare questo rischio Renzi ha imposto una modifica al calendario dell’aula di palazzo Madama, anticipando immediatamente il voto sulle riforme. Prima del complicato passaggio sulle unioni civili, ma anche prima del rinnovo delle presidenze di due commissioni, e di molte vicepresidenze, appuntamento – slittato al 21 – che farà felice qualcuno e scontenterà qualcun altro. Si voterà dunque mercoledì 20, dopo mezza seduta di dibattito il giorno precedente.

Si tratterà di un voto «prendere o lasciare», non sono ammessi emendamenti e il passaggio è considerato a tal punto una formalità che il capogruppo del Pd Zanda ieri mattina ha potuto chiedere la modifica del calendario sostenendo che la discussione in commissione sulle riforme fosse ormai in fase avanzata, in realtà è cominciata nel pomeriggio. La minoranza bersaniana del Pd «prenderà» senza dubbi, malgrado sostenga di non aver ancora deciso quale indicazione di voto dare al referendum: fossero davvero contrari potrebbero fermare immediatamente la riforma facendo mancare il voto dei loro venti senatori – gli stessi che giudicano «preoccupante» l’incrocio tra questa riforma e la legge elettorale già approvata.

Per quanto possa essere in difficoltà sulle Unioni civili o sui posti di sottogoverno, nessuno crede alle minacce di Alfano, dunque è sicuro che nel voto di martedì prossimo non ci saranno sorprese. Al limite arriverà qualche voto in più rispetto ai 178 raccolti dalla riforma nella prima lettura, il 13 ottobre scorso. Eppure è comprensibile che Renzi non voglia trascurare nulla, visto che è già successo che nella votazione di quattro diversi articoli della riforma (tra i quali il decisivo articolo 2 sulla composizione del nuovo senato) tra distratti, assenti e dubbiosi l’aula si sia fermata sotto la soglia dei 161 voti che segnano la maggioranza assoluta.

Dunque se nel merito della riforma si parlerà pochissimo, l’attenzione va alla girandola di nomine tra governo e commissioni. Sono due quelle che cambieranno di certo, perché ancora assegnate a Forza Italia, partito ormai di opposizione: le presidenze delle commissioni giustizia e trasporti. Una delle due deve andare agli alfaniani (i verdiniani, fintamente all’opposizione, si accontenteranno di qualche vice). Se fosse la giustizia andrebbe all’avvocato Nino D’Ascola, che ha rinunciato all’ultimo momento a seguire Quagliariello nella sua fase anti renziana. D’Ascola però preferirebbe direttamente il posto di viceministro alla giustizia. Se fosse allora la commissione trasporti, andrebbe ad Antonio Gentile, altro alfaniano calabrese, un anno fa costretto a dimettersi da sottosegretario perché accusato di aver fatto pressioni per bloccare l’uscita di un quotidiano che riportava la notizia di un’indagine sul figlio. La riforma della Costituzione dipende anche dalla loro soddisfazione.