Il gruppo di lavoro delle commissioni Finanze di Camera e Senato parte da una premessa condivisibile: un buon sistema fiscale è quello adatto alla realtà su cui interviene.
Resta allora da capire perché arrivi a conclusioni tanto sbagliate, andando a premiare la parte più ricca della società, proprio nel mezzo di una crisi epocale che ha generato milioni di nuovi poveri, compresso ulteriormente il ceto medio, travolto il tenore di vita di tanti lavoratori, costretti a mesi di cassa integrazione.
Non si può infatti considerare in altro modo un’ipotesi di riforma che comprima di 40 miliardi le entrate fiscali, con interventi a esclusivo vantaggio delle imprese, delle rendite finanziarie e di chi percepisca un reddito superiore a quello di impiegati e operai, per non parlare di precari e piccole partite Iva.
La destra incassa l’abolizione dell’Irap, che da sola vale 20 miliardi, e che rischia di aprire una voragine nel finanziamento del sistema sanitario, se non diventi immediatamente chiaro quali siano eventuali fonti alternative di entrate.
L’unica ipotesi in campo, ovvero la sostituzione con un’addizionale regionale sull’Ires non è infatti praticabile, vista la maggiore incidenza del ciclo economico e la più forte disparità territoriale che caratterizza questa imposta. Si interviene inoltre sulla tassazione delle rendite finanziarie, escludendo esplicitamente e senza spiegazioni la possibilità di ricondurle nel perimetro dell’Irpef, assoggettandole così a un regime di progressività, e al contrario riducendo l’aliquota dal 26% al 23%.
Anche in questo caso siamo davanti a un intervento che favorisce nettamente la parte più ricca della società, dato che esiste un rapporto di proporzionalità diretta fra livello della ricchezza investita in asset finanziari e monte complessivo del proprio patrimonio. Significa che il taglio dell’imposta rappresenterà un vantaggio inesistente per i nullatenenti, irrisorio per i comuni risparmiatori, estremamente vantaggioso per chi disponga di rendite milionarie.
Sul lato Irpef, si rafforza ulteriormente il regime di flat tax per i lavoratori autonomi, spingendo così ancora di più nella direzione della destrutturazione del mercato del lavoro.
È infatti innegabile che la scelta leghista di introdurre un regime duale sotto i 65.000 euro di reddito annuo, tale per cui la divaricazione può arrivare fra il 41% di un dipendente e il 15% di un autonomo, rappresenti una spinta formidabile a restringere il perimetro del lavoro subordinato.
Ecco quindi che rimane del tutto inascoltata la lezione della pandemia, che ha dimostrato quanto un sistema fondato sul precariato e sul dilagare delle false partite Iva produca nella crisi una voragine sociale per l’assenza di ammortizzatori sociali. D’altra parte anche il dibattito sulla progressività dell’Irpef segna una battuta d’arresto, se è vero che esce di scena la possibilità di introdurre un’aliquota mobile sul modello tedesco, e si sceglie invece di intervenire esclusivamente sulla fascia 28-55 mila in termini di riduzione. Vince anche in questo caso l’approccio della destra, con il risultato di un appiattimento della curva, se si consideri anche l’assorbimento dei bonus e l’eventuale allargamento della no tax area.
Ciò che manca è invece la riforma del catasto, ancora una volta a esclusivo vantaggio dei ceti più abbienti, nonostante sia pronta e rinchiusa in un cassetto del Mef da ormai un decennio.
Dovrebbe inoltre destare scandalo la totale assenza di interventi sul fronte della lotta all’evasione fiscale, considerando quanto questa sia elevata e dannosa per la coesione sociale e l’equità. Le poche parole spese sono tutte volte a rassicurare che gli strumenti attualmente previsti per l’accertamento saranno resi meno efficaci, e che ci si asterrà da qualsiasi intervento radicale nel recupero del mancato gettito.
Un atteggiamento curioso, in un paese in cui la possibilità di incappare in un controllo è del 2% , nonostante un tax gap vicino ai 110 miliardi di euro annui.
Soprattutto manca la volontà politica di accennare anche solo come ipotesi alla possibilità di un’imposta patrimoniale, nonostante tutti i dati parlino di un paese in cui la diseguaglianza abbia raggiunto livelli inaccettabili, così come l’accumulazione di ricchezza nelle mani di pochissimi.
Basti pensare che nel 1995 il 10% più abbiente possedeva una quota del 42% della ricchezza nazionale, lasciando il 58% al restante 90%. Oggi siamo al 54% contro il 46%, con un impressionante rovesciamento di proporzioni.
In questo quadro un intervento come quello proposto da Sinistra Italiana con la campagna Next Generation Tax rappresenterebbe soltanto una modesta quanto doverosa operazione di restituzione.