La svolta verde della Pac non sarà per domani. Troppi interessi, troppe lobby premono per non cambiare le carte in tavola della Politica agricola comune, che deve riformarsi per il periodo 2023-2027.

Ieri, i ministri dell’Agricoltura dei 27 hanno approvato l’accordo provvisorio, raggiunto venerdì scorso, tra gli stati e il Parlamento europeo, sulla base di una proposta di compromesso presentata dalla Commissione nel 2018. L’Europarlamento avrà l’ultima parola, in plenaria. Il voto di venerdì è stato contrastato, i Verdi hanno votato contro come l’estrema destra, ma per ragioni opposte, a maggio un ultimo round di negoziati era fallito. Il Piano Verde della Commissione è giudicato troppo vincolante dai grandi produttori mentre per gli ecologisti e le ong la svolta non è all’altezza delle sfide e dei bisogni. C’è inoltre un’altra polemica sulla ripartizione degli aiuti.

SE IN PLENARIA ci sarà il via libera, i 27 stati dovranno presentare i rispettivi “piani nazionali” alla Commissione entro il 31 dicembre di quest’anno. Difatti, la prima novità è una “ri-nazionalizzazione” della Pac, la politica comune nata nel 1962 e che assorbe ancora, con i finanziamenti per lo Sviluppo rurale, più del 40% del bilancio Ue, anche se in progressivo ribasso.

L’agricoltura europea interessa il 40% della superficie della Ue, 174 milioni di ettari, più di 10 milioni di aziende agricole, 22 milioni di agricoltori, con situazioni molto diverse, dai grandi produttori dell’agricoltura industriale ai piccoli e a quelli che hanno investito nel biologico. La Pac sono 386 miliardi di euro, ripartiti su sette anni, 270 di aiuti diretti ai produttori, 450 milioni ogni anno per la stabilità dei prezzi. Ma l’1,8% dei beneficiari incassa il 32% degli aiuti diretti. La Francia è il primo beneficiario della Pac.

NEI VARI PIANI messi a punto dalla Commissione, dal patto verde per la neutralità Co2 nel 2050, al From Farm to Fork, la transizione verso una produzione rispettosa del clima è complicata e contrastata da chi oggi approfitta di più della Pac. Il piano Biodiversità 2030, per esempio, istituisce l’”eco-regime” con contributi per gli agricoltori che passano a una produzione più rispettosa dell’ambiente: prevede di versare il 25% degli aiuti a questa categoria e istituisce una soglia minima del 20% per il periodo 2023-24. L’Europarlamento aveva chiesto il 30%. La “ri-nazionalizzazione” della Pac, però, aggiunge un ostacolo: saranno i singoli stati a decidere e controllare, ogni paese può stabilire come adeguarsi agli obiettivi sul clima della Ue. Le ong denunciano un sistema “opaco”, che apre a tutte le possibilità di arrangiamenti locali. Lo sviluppo durevole dipende dal co-finanziamento dei singoli stati. La riforma rimanda di anni l’obiettivo di imporre una rotazione obbligatoria delle colture. I grandi produttori hanno imposto delle scappatoie. La difficoltà della transizione è come conciliare durabilità economica con durabilità ambientale.

Inoltre, la riforma non prevede il blocco delle importazioni nella Ue di prodotti agricoli con residui di pesticidi. Qui, hanno la preminenza gli accordi commerciali con vari paesi del mondo, molti dei quali appartenenti a aree di grande produzione agricola. Un timido miglioramento della riforma è la “condizionalità” sociale: gli aiuti saranno legati al rispetto del diritto del lavoro. Ma si tratta solo di un mezzo passo avanti, perché molto resta da precisare, in particolare sugli stagionali.

Resta in termini vaghi anche il minimo del 10% degli aiuti che ogni stato dovrebbe destinare ai piccoli agricoltori e il 3% ai giovani che entrano in una professione dove il reddito è inferiore a quello medio per la grande maggioranza degli addetti.