A un anno esatto dalla sua entrata in vigore, la riforma del lavoro del Partido popular – annunciata come il rimedio definitivo al fosco panorama spagnolo dell’occupazione – si è dimostrata un caso paradigmatico di rimedio peggiore del male. Non solo la nuova legge non ha tamponato ma aumentato l’emergenza della disoccupazione, ma ha anche sensibilmente peggiorato le condizioni generali dei lavoratori.

Il nuovo pacchetto di norme è un tappeto rosso steso dal governo ai piedi degli industriali: licenziamenti più facili, indennizzi e liquidazioni decimate, strada spianata per i contratti a termine e pesanti limitazioni alle contrattazioni collettive, che non potranno eccedere la durata di un anno. Una misura, quest’ultima, che inizierà a far sentire i suoi effetti dal prossimo 8 luglio, data in cui scadranno i termini per gli accordi in discussione prima dell’entrata in vigore della nuova legge, che riguardano varie centinaia di migliaia di lavoratori.

Nel caso in cui non vi sia intesa tra le parti nei tempi stabiliti – un’eventualità che la vecchia legislazione eliminava a priori lasciando aperti i tempi delle negoziazioni – gli accordi attualmente in vigore decadranno e le aziende, secondo le nuove disposizioni, avranno la facoltà di applicare alla lettera i contratti di categoria, azzerando così benefici e accordi raggiunti nel tempo tra lavoratori e imprese. Un grosso passo indietro che minimizza il potenziale della contrattazione collettiva e aumenta il potere delle imprese, che, in caso di perdite continuate, possono unilateralmente sospendere persino l’applicazione dei convenios non in scadenza.

Tutto giustificato dalla crisi, con l’infinito tributo di tagli che essa esige, che sta erodendo i diritti e le condizioni lavorative: nel 2007, all’apice del boom economico, furono firmati 6.000 accordi collettivi; tra gennaio e maggio del 2013, con la riforma a pieno regime, il numero degli accordi è sceso a 500 e i lavoratori beneficiati si sono ridotti a poco più di un milione e mezzo (più di 4 milioni in meno rispetto al 2007). Riguardo poi quelle professioni prive di un contratto di categoria, il ministro del Lavoro Fatima Báñez suggerisce l’applicazione dello Statuto dei lavoratori, che però contiene indicazioni di massima su diritti e salari. Con il rischio di lasciare le aziende ancora più libere di resettare e rimodellare secondo convenienza e con ancora meno limiti rispetto al contratto di categoria le condizioni lavorative, senza che i dipendenti abbiano efficaci strumenti d’opposizione.

Aziende in cui il braccio di ferro per la rinegoziazione dura da anni, ad esempio, avrebbero, per gentile concessione del Partido popular, partita vinta a tavolino, anche se in caso di conflitto la parola resta ai giudici. In realtà, salvo casi eccezionali, è improbabile che le possibilità della riforma siano applicate in maniera drastica. Ma in ogni caso resta la questione di principio: quella di un governo che – in ogni campo – fa di tutto per favorire i soggetti forti a discapito delle categorie più indifese. I sindacati chiedono una proroga dei tempi che «sarebbe comunque solo una pezza». Con questa riforma in atto, sarebbe già qualcosa.