Caro Luigi, ricordi quel nostro viaggio in Puglia nel maggio del 2006?

Ci avventurammo alla ricerca del San Donato perduto, a Montesano Salentino, quasi a sondare in un pianeta altro risonanze di invocazioni contro il mal caduco e i disordini della mente. Nei silenzi di quel luogo, vuoto di grida e di gesti impetranti, il tuo sguardo si fece più assorto, oscillante tra sequenze di memoria e di presente, in una sorta di muta accettazione del tempo che spietatamente è «irredimibile», nella definizione di T. S. Eliot .

Tu sempre indagando le zone d’ombra del vissuto individuale e collettivo, tracciando come Mark Rothko quei cangianti confini tra le umane emozioni. Non astratto ma espressionista, tuttavia partecipe del mutarsi dei colori in tonalità più profonde. Vagante dai territori aspri del Sud a quell’altrove in cambiamento epocale, per cogliere in lande distanti l’intima prossimità di esistenze difficili, in una sorta di cupo sentimento oceanico. Lo stesso che traspariva dai tuoi occhi nella Chiesa di Montesano Salentino, in atteggiamento di non preghiera ma quasi in veglia incubatoria, forse sospeso tra la «Madonna in cielo» e la «Matre in terra».

Istantanee differite che riemergono come tracce di tessuti fiabeschi, nell’accezione di Cristina Campo, ben rappresentati dallo sfocato cavaliere armeno: un bimbo in dissolvenza verso un futuro incognito ma con spirito audace . Fino a giungere alla resa del disastro del Vajont: la neve costellata di croci in una Italia inesorabilmente recidiva, e qui il tuo sguardo si arresta nella fissità esiziale di un paesaggio immoto, nel quale è impossibile attribuire un senso al dolore reiterando ritualmente il lutto, poiché il lamento è inespresso .

Partiture visive dissonanti in apparenza, eseguite nella cattura un po’ colpevole delle vite degli altri, mentre lavorano, danzano, supplicano, raramente sorridono, più spesso permangono nella ineluttabilità di sfondi desolati e vicende di sopraffazione, in attesa di accedere, al pari del sedicente agrimensore di Kafka, al Castello che li domina.

Nell’osservare le impronte dei tuoi sopralluoghi oltre il Meridione etnografico e pseudodemartiniano ho ripensato alle Anime baltiche di Jan Brokken, al suo excursus in terre contese e segnate da diaspore di grandi personaggi (Sergej M. Ejzenštejn, Mark Rothko, Hannah Arendt, Romain Gary…) e di gente comune: geografie solo in parte coincidenti ma affini. E ho ritrovato nelle tue inquadrature in itinere lo stesso anelito verso testimonianze dell’umana ricerca di patrie fondanti, la condivisione di un sovrastante destino di rimpatrio e ricollocazione entro le certezze di una provenienza. Ricordo un viaggio a Pescopagano, dove nacque tuo padre, l’austera emozione con cui affrontasti i festeggiamenti del rinnovato ritorno e mi vengono in mente i versi del tuo amato poeta Albino Pierro: «Queste cose silenziose,/ questo pianto che si nasconde,/ adesso che è notte,/ mi dicono che ritorna/ il bambino che ero: non c’è il riso come allora/ ma io lo so remoto/ e vivo come me/ in un altro grido più grande».

Non è solo per assonanza che questo grido potrebbe suggestivamente espandersi dalla Lucania alle più remote terre baltiche di Lettonia, Lituania ed Estonia. I pezzi d’Europa indagati da Brokken si mostrano come una tela disseminata da resti di campanili esplosi, gli stessi che tu, Luigi, vorresti intravedere al tuo interno, avanzando da sempre in una rincorsa poetica della salvezza: dagli scongiuri contro le nuvole oscure del cielo (Magia lucana 1958) alle irrisolte fughe di David Lamda (Il tempo dell’inizio 1974).
Ti ho conosciuto agli inizi del 1980, nei documentari che Annabella Rossi volle mostrarmi nella cineteca dell’allora Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari. La cineteca divenne Archivio di Antropologia Visiva nel 1985, secondo la denominazione scelta da Diego Carpitella, e nel 2014 l’archivio fu intitolato alla studiosa. Per giorni e giorni un proiettore a 16 mm. restituì le sequenze delle vostre tormentate collaborazioni: Il male di San Donato (1965), La Madonna di Pierno (1965); Il culto delle pietre (1967); Nascita di un culto (1968), La potenza degli spiriti (1968), Montevergine (1971), Morte di Padre Pio (1971); L’attaccatura (1970); La Madonna del Pollino (1971), La possessione (1971). Pellicole segnate dal frutto di contese «sul campo», tra l’impegno di notificazione del disagio delle «classi subalterne» e il tuo procedere filmico verso un’arcaica universalità. Senza sonoro esplicativo scorrerebbero più pure quelle immagini, prove non solo di un Meridione obsolescente, talvolta in finzione etnografica, ma anche delle tue intime passioni, nelle quali rispecchiavi aneliti registici di più ampio respiro. In quei tempi di contrappunto documentaristico tra un «cine-occhio» vertoviano e un «cine-pugno» ejzenštejniano tu proponevi una interpretazione poetica delle realtà buone da documentare, sia pure nelle strettezze produttive e nelle soggiacenti imposizioni antropologiche.
Ora, per uscire dalle fin troppo usurate maglie interpretative di visioni distopiche pregresse, nelle quali il passato si coniuga con un futuro incombente di catastrofi bibliche, vorrei soffermarmi su un aspetto di te che non traspare dalla ricorrente severità del tuo volto.
Ricollegandomi al provocatorio intervento di Giorgio Fontana «Kafka non era un kafkiano», tenuto durante il Festivaletteratura di Mantova nel 2012, concludo sottolineando quanto il personaggio ombroso che siamo soliti ascrivere a una dimensione di cupezza dreyeriana sia anche, nella sua tonalità più luminosa, un artista di affabili finezze e sottili ironie, non ancora sazio di esperienze e animato da una ardita curiosità. Dunque Di Gianni non è un «digianniano» e il suo tempo è sempre quello di un inizio.

* Emilia De Simoni è Ideatrice della mostra a cura di Rosa Anna Di Lella, organizzata dall’Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia in collaborazione con il Museo delle Civiltà.