Quarantacinque tra artisti e architetti, oltre cento opere realizzate negli ultimi dieci anni e suddivise in 5 sezioni, rappresentano un significativo spaccato dell’arte contemporanea turca in mostra al Maxxi di Roma dall’11 dicembre al 30 aprile, a cura di Hou Hanru, Ceren Erdem, Elena Motisi e Donatella Saroli. Qualcuno ha definito Istanbul. Passione, gioia, furore una piccola biennale, sia per la mole di lavori sia per il forte impatto visivo e contenutistico che accoglie lo spettatore, ma a dominare sono soprattutto le immagini in movimento, installazioni mono e pluricanale, caratterizzate da un filo conduttore politico che le collega a oggetti, plastici, simulacri, fotografie, disegni e molto altro, creando un insieme esteticamente caotico eppure compatto, dove le arti visive dialogano perfettamente con l’architettura, secondo una linea di continuità ormai peculiare delle mostre allestite in questo museo. Uno dei temi forti dell’esposizione è la violenta trasformazione in non-luogo che sta subendo il tessuto urbano di Istanbul, un mutamento radicale connesso con il controllo e la repressione poliziesca, le limitazioni della democrazia e le conseguenti rivolte degli ultimi anni, simbolo di una resistenza della società civile in cui artisti e intellettuali hanno svolto un ruolo centrale. Il breve video introduttivo alla mostra, Rose Garden (2013) di Extrastruggle – che dà anche il titolo alla sezione – basato su un’elegante grafica animata in bianco e nero, sintetizza bene il mood del percorso espositivo, dove il politico si fonde con il poetico, la brutalità del reale con la trasfigurazione metaforica. E dall’animazione si passa al videoclip musicale, secondo una felice esplorazione di linguaggi differenti: Wonderland (2013) di Alil Altindere – autore anche di altri video e di sculture in cera disseminate per i due piani della mostra – è strutturato proprio come un music video di hip hop con la band dei Tahribad-I isyan che interpreta la rivolta dei ragazzi del quartiere storico di Sulukule, vittima della speculazione edilizia. Un’altra rivolta (ma solo preparata e dilazionata all’infinito) è quella che vediamo nell’installazione pluricanale Preparation n.1 di Nasan Tur: dettagli di mani fabbricano striscioni e bandiere, impacchettano catene, costruiscono megafoni pronti all’uso, secondo uno stile da action movie. Dall’offesa all’autodifesa: Tersyön Shop Installation (2007) di Burak Delier ci presenta i giubbotti protettivi per parare i colpi della polizia, prodotti da una finta azienda, con tanto di promo dimostrativo. Il confronto tra il disagio sociale mediorientale e quello europeo è evidente in alcune installazioni come Of dice and men (2011) di Didem Pekün, dove su due schermi si alternano gli scontri del Gezi e quelli londinesi del movimento Occupy, oppure in Collapsing New Buildings (2011-2013) di Pinar Ögrenci: dal buco di una staccionata lignea che simula quella di un cantiere, si vedono due video (uno girato ad Amburgo e l’altro a Istanbul) di altrettanti cantieri che invadono la metropoli, in una sorta di mise en abyme.
Su tre schermi separati, invece, si possono vedere i video monocanale di Ali Kazma, nel filmare una serie di figure professionali alle prese con il loro lavoro, dal calligrafo al burocrate, dal macellaio al neurochirurgo, il noto artista turco esalta non solo la precisione dei loro gesti e la rapidità dell’esecuzione (diventa surreale la reiterazione del timbrare documenti da parte dell’impiegato), ma trasforma azioni quotidiane in vere e proprie performance artistiche (cosa che ritroviamo anche in un altro video di Delier, Crisis and Control con impiegati-performer dediti allo yoga). Mentre con la sua Cennetten Hemen Once (2015) Cengiz Tekin racconta poeticamente il dramma dei migranti sulle coste del Mediterraneo, Inci Eviner ci seduce con l’installazione Nursing Modern Fall (2012), frutto di compositing e videografica, una complessa impalcatura visiva di donne ed elementi architettonici. Il sociale e il politico, infine, sfocia inevitabilmente nel religioso in diversi lavori, come nel video Theorists (2008) di Fikret Atay, in cui una cinquantina di giovani musulmani senza sosta dentro una grande stanza recitano il corano camminando e creando una sovrapposizione incomprensibile di voci. Dello stesso autore è anche il video dall’ironico titolo Goodyear, che allude sia alla marca di un vecchio copertone con cui gioca un ragazzo della periferia e funziona come augurio per una stagione non proprio felice ma tumultuosa che la mostra fotografa con grande freschezza e senza noiosi concettualismi. Collegata all’esposizione è la breve rassegna La storia in movimento. Racconti del cinema turco dagli anni 60 ad oggi (a cura di Italo Spinelli) con film, cortometraggi e documentari che ripercorrono la storia sociale, politica e culturale della Turchia contemporanea (programmata il 30 e 31 gennaio).