Nelle ultime settimane abbiamo assistito a profonde divisioni nella politica italiana. La pubblicazione della Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee (Cnapi) per realizzare il deposito per i rifiuti radioattivi sta ricomponendo questa frattura. Ministri, sottosegretari, parlamentari, governatori, assessori, sindaci, di ogni partito e movimento politico, con rarissime eccezioni, pubblicamente o informalmente, si sono dichiarati contrari.

Un coro unanime fatto della sindrome Nimto degli eletti (not in my terms of office, non nel mio mandato) che, insieme al Nimby dei cittadini (not in my backyard, non nel mio giardino), è uno dei gravi problemi cronici del Paese, assolutamente irrisolto.
Partiamo dall’opzione zero: non facciamo il deposito.

Oltre alla procedura d’infrazione e alle multe dell’Europa, più che condivisibili, avremo ancora i rifiuti a media e bassa attività, prodotti da ospedali, industria e centri di ricerca, stoccati in luoghi inidonei. Quelli ad alta attività, prodotti dalle 4 centrali spente grazie alla nostra vittoria al referendum del 1987, continueranno a essere in siti insicuri, in alcuni casi pericolosi (nel 2000 la piena della Dora Baltea rischiò di inondare il sito piemontese di Saluggia e provocare un disastro nucleare).

Cosa dobbiamo fare? Visto che abbiamo limitate quantità di rifiuti molto radioattivi, che fortunatamente non produrremo più grazie all’addio al nucleare, il governo deve trovare subito un accordo con gli altri Stati membri per portarli in uno dei depositi internazionali previsti dalla direttiva europea.

I rifiuti a media e bassa radioattività, che stiamo producendo e che produrremo anche in futuro, vanno ospitati in un deposito unico nazionale, realizzato in un luogo adeguato da individuare dopo un’attenta valutazione tecnico scientifica e una grande operazione di coinvolgimento dei territori, delle istituzioni locali, delle categorie produttive, dei cittadini.

Esattamente il contrario di quello che fecero nel 2003 il governo Berlusconi e la Sogin del commissario Jean con il blitz per realizzare il deposito geologico per tutte le scorie nucleari a Scanzano Jonico in Basilicata. Una localizzazione che, dopo settimane di proteste popolari a cui partecipammo anche noi, fu ritirata, creando un imbarazzante precedente.

Come ne veniamo a capo? In un paese dove anche un impianto per la digestione anaerobica e il compostaggio dell’organico differenziato viene contestato come se fosse una discarica o un inceneritore, e dove un parco eolico come se fosse, sempre e solo, un oltraggio al paesaggio, addirittura davanti a coste cementificate come quella romagnola o laddove le pale eoliche ci sono già, bisogna trovare uno strumento nuovo per canalizzare la discussione tra favorevoli e contrari, condividere le scelte col territorio, scegliendo se e come fare l’opera in nome dell’interesse collettivo.

La Francia ha una esperienza pluridecennale in questo senso con il debat public. Alcune Regioni, come la Toscana e l’Emilia Romagna, hanno approvato norme che vanno in questa direzione, mentre con la riforma del Codice degli appalti del 2016 è stato inserito un articolo su partecipazione e dibattito pubblico.

Ma non è sufficiente. Serve potenziare subito questo strumento per permettere al paese di dotarsi del deposito di rifiuti a media e bassa attività ma anche per realizzare le tante opere pubbliche che verranno finanziate col programma Next Generation Eu.

Eviteremmo di trasformare la necessaria e desiderabile transizione ecologica del Paese – che speriamo sia davvero presente nel Piano nazionale di ripresa e resilienza che sta predisponendo il governo – in una guerra civile diffusa, alimentata dalle fake news di pseudoambientalisti e dalla ricerca di consenso elettorale di improbabili rappresentanti istituzionali.

 

* Presidente nazionale di Legambiente