Immaginate di avere una macchina che inquina quattro volte i limiti consentiti, che ha i freni completamente usurati, la frizione andata, le gomme liscissime, il parabrezza rotto, i tergicristalli divelti, un faro su quattro funzionante, e che avete comprato da uno che aveva cancellato il numero del telaio perché quella compravendita era fuori legge, e immaginate di dover andare a fare la revisione, e l’officina vi dica: va bene, non importa, ti diamo sei mesi per dare una ripulita al cruscotto, intanto tu continua a girare tranquillo.

È QUELLO CHE È SUCCESSO l’altro giorno all’ultima riunione della conferenza dei servizi che doveva prendere una decisione molto importante sui rifiuti a Roma: riesaminare l’autorizzazione dell’impianto di trattamento di via Salaria 981, un impianto cui vengono portate quasi mille tonnellate ogni giorno di rifiuti, che è peggio della macchina dell’esempio. Devasta una zona dove vivono almeno 50mila persone, ha una collocazione contro ogni buon senso e norma, a cento metri dal centro abitato, a centocinquanta metri da un asilo. Facciamo una piccola premessa e capiamo di cosa stiamo parlando, ossia di una questione nazionale se non internazionale.

L’Ama, società municipalizzata del comune di Roma per i rifiuti, ha avuto pochi anni fa un appalto pubblico di 12,4 miliardi di euro per quindici anni, ossia 800 milioni l’anno, uno dei più grandi appalti pubblici europei; ha in gestione due tmb in cui riceve metà dell’immondizia indifferenziata di tutta Roma. Questi tmb, in particolare quello sulla Salaria, sono di fatto delle discariche. Nonostante martedì scorso Flaminia Tosini, dirigente tecnica della regione, alla presenza della dirigenza di Ama, del comune, della città metropolitana, e di una rappresentanza dei comitati e della giunta del terzo municipio, ha deciso di chiudere la discussione sull’autorizzazione, dando soltanto poche indicazioni per migliorare la gestione dell’impianto.
Tra le mani aveva una relazione dell’Arpa Lazio del 16 novembre proprio sul tmb Salario; Tosini ha detto che l’aveva sfogliata frettolosamente, non ne ha dato lettura, e non ne ha tenuto praticamente conto.

QUELLA RELAZIONE è una denuncia inappellabile sull’impianto: c’è scritto che di fatto l’impianto non tratta i rifiuti ma piuttosto li accumula e li sposta (quindi è una discarica di fatto); che non avrebbe i requisiti per essere autorizzato; che etichetta rifiuti in modo scorretto; che produce più scarto che rifiuto lavorato; che fa trasferenza di rifiuti in modi che sono completamente fuori norma; che i rifiuti che escono andrebbero ritrattati, tanto funziona male l’impianto; che i rifiuti stazionano nell’impianto oltre qualunque tempo consentito; che non riesce a riciclare nulla, nemmeno i metalli (0,4 per cento contro i 5-7% che dovrebbe essere lo standard); che non è stata fornita nessuna documentazione sull’impatto degli odori e questo è un prerequisito per l’autorizzazione; che non può essere fatta manutenzione a causa della permanenza di quantità enormi di rifiuti; che non si tiene in alcun modo conto dell’impatto sul territorio della putrescenza (almeno 4 volte più dei limiti); che moltissime attività di scarico e carico avvengono in modo illecito; eccetera.

INSOMMA, COME RECITANO le ultime righe della relazione, «la valutazione della documentazione allo stato attuale agli atti non può che determinare un parere negativo di Arpa Lazio a riscontro della medesima».
Ho fatto leggere la relazione a un’altra dirigente di una società che tratta rifiuti al nord e mi ha detto: «A noi una relazione di Arpa così, farebbe chiudere l’impianto in tempo zero. Ne viene fuori una gestione agghiacciante. In pratica finisce tutto in discarica senza trattamento». Quell’impianto ha chiaramente un difetto genetico: lì non può stare, deve chiudere, essere ricollocato. Ora immaginate un’altra cosa: per sette anni e mezzo gli abitanti della zona hanno vissuto sulla propria pelle la condizione di invivibilità di aria tossica che non permetteva nemmeno di aprire le finestre con 40 gradi, e la preoccupazione costante per la salute propria e dei propri cari.

Oggi quella relazione dell’Arpa mette nero su bianco le ragioni di quest’esasperazione e di questa rivendicazione di diritti. Occorre che le istituzioni politiche, amministrative, o anche la magistratura blocchino questo impianto. L’irresponsabilità del tenerlo funzionante è stata evidentemente finora molto grave; nessuno ha più la minima tolleranza a che quest’irresponsabilità si protragga. Non si può dire nemmeno cosa accadrà anche da un punto di vista del disordine sociale: sette anni e mezzo di violenza quotidiana possono portare reazioni imprevedibili.