Era il 30 marzo 1922 quando, scrivendo da Ceylon all’amico Robert Pratt Barlow, D.H. Lawrence si doleva del fatto che gli inglesi abbandonassero l’Inghilterra per trasferirsi in Asia – «alla periferia della vita» – perché non avevano il coraggio di affrontare se stessi. «Bisogna uscire dalla grande vasca di loto del Buddhismo e tornare alla ferma isoletta del proprio destino individuale. Buddha è così completo e perfetto e privo di nuove possibilità. Il fascino viene da Occidente, non dall’appagato Oriente».

A pochi anni da una guerra mondiale che aveva portato alla ribalta la superpotenza statunitense, il monito di Lawrence reiterava l’antica paranoia sciovinista di un’Inghilterra materialmente e spiritualmente consunta da un impero-tritacarne, che attirava nella sua morsa robusti patrioti e restituiva relitti umani nativizzati e apolidi. E se un fil rouge lega l’esotismo decadente praticato da scrittori diversi come Kipling, Haggard, Conrad, Stevenson, Maughan, Forster, oppure Orwell, questo filo è senz’altro rintracciabile nel fascino esercitato dalla figura del drifter (letteralmente: persona che va alla deriva, che si abbandona alla corrente), il disadattato che trasmigra in Asia in cerca di riscatto e di avventura.

Un dandy del terzo millennio
A questa tipologia appartiene anche il protagonista del romanzo di Lawrence Osborne La ballata di un piccolo giocatore, uscito nel 2014 e ora pubblicato da Adelphi nell’accurata traduzione di Maria Grazia Gini (pp. 212, € 18,00). Autore del memoir Bangkok e dei romanzi Il turista nudo (2006), Shangri-La (2008) e Cacciatori nel buio (2015), Osborne traduce la malinconia post-imperiale in un’elegante favola per adulti, dove il topos un po’ logoro del rinnegato, caratteristico di tanta letteratura coloniale, è messo al servizio di un’ironia inequivocabilmente contemporanea, rivolta a una Inghilterra meschina, ripiegata su stessa e in chiaro odore di Brexit.

Denunciato per truffa dalla vedova del dirigente di una miniera di rame, un oscuro avvocato della «pingue e azzimata provincia inglese» fugge a Hong Kong, deciso ad affidare alla cieca casualità del gioco d’azzardo le sorti del cospicuo bottino sottratto all’ingenua signora. Grazie all’accento Oxbridge messo a punto in anni di livorosa antropologia sociale, l’uomo abbandona presto lo stato di «reietto del sistema anglo-induista delle caste» per vestire i panni di Lord Doyle, un aristocratico a caccia di emozioni forti in quella zona franca da polizia, memoria e scrupoli morali che è offerta a turisti e magnati dai coreografici casinò di Macao.
Ostentando una souplesse degna di James Bond nel film Casino Royale (non a caso ambientato al Venetian di Macao), Doyle si specializza nel baccarat punto banco, un gioco che non richiede alcuna abilità particolare ed è amatissimo dai cinesi poiché, in modo del tutto tautologico, ratifica la loro ferma credenza nell’incontrollabilità del destino. Galvanizzato dalle «scariche di arroganza animalesca che accompagnano le vincite improvvise» ma, come ogni autentico giocatore, segretamente alla ricerca di quella sorta di nirvana che solo la perdita di tutto è in grado di indurre, questo romantico dandy del terzo millennio – che siede sempre ai tavoli con un portafoglio di coccodrillo e guanti gialli di capretto – si ritrova a giocare un’imprevista partita contro l’intero apparato di demoni, tabù e ritualità apotropaica, di cui si nutre la pittoresca sottocultura del gioco d’azzardo in Cina.

Nella migliore tradizione dell’intrattenimento esotico, a influenzarne le sorti concorrono due prototipi di femminilità estrema, ugualmente asserviti al potere maschile: una stregonesca e xenofoba «Nonna» di Hong Kong, che staziona nei casinò al solo scopo di sperperare i capitali del marito fedifrago e spolpare i guai lo (gli europei), e una giovane prostituta spiritualizzata e salvifica, che si vende per offrire oboli al monastero buddista del villaggio di montagna in cui è nata, nella speranza di accumulare meriti e sottrarsi così al destino della ruota.

Osborne è un maestro della tecnica narrativa che, con riferimento alla prosa di Balzac, Eric Auerbach ha definito «realismo atmosferico», e affida il piacere del testo all’evocazione di una fitta rete di corrispondenze tra i dettagli ambientali della storia e i suoi contorni psicologici e morali. Laddove l’ipercomplessità dei grattacieli di Hong Kong esibisce «il profilo di cristallo del capitalismo» e appare come un’appendice dell’Inghilterra classista che ha alimentato le ambizioni del protagonista per poi distruggerle, il vintage coloniale di Macao – con i nomi portoghesi delle strade, i capitelli corinzi e gli sfavillanti «lampadari a goccia che scendono in picchiata da soffitti dipinti con scene del Tiepolo dove gli occhi degli zefiri hanno il taglio asiatico» – sembra proiettare questo lembo di Cina conteso tra terra e mare in un simbolico «orienteoccidente», collocato ben oltre le frontiere culturali tra est e ovest e che assomiglia piuttosto a una «terra di tutti e di nessuno dotata di un’aura di violenta democrazia».

La distanza da D.H.LAwrence
In questa epifania disseminata tra le righe di un’agile parabola si consuma il senso della ballata del piccolo giocatore, nonché la distanza di Lawrence Osborne dal severo orientalismo di D.H. Lawrence e di molti suoi contemporanei. La lotta compulsiva contro le pure leggi del caso, caratteristica del gioco d’azzardo, può risolversi nella scoperta dell’azione disinteressata, e il Buddhismo di rimessa di tanti drifters, condannato negli anni tra le due guerre, nell’era della sorveglianza digitale può rivelare, al contrario, quanta forza e quanta immaginazione si esprimano nella pratica dell’abbandono.
«È questo il bello. Nessuno di noi perde proprio tutto. Ci resta sempre qualcosa per tirare avanti. La vita come debito perpetuo, pensai. Finché facciamo il colpo e a quel punto ce ne andiamo».