C’è più di un motivo per cui quelle che si svolgeranno oggi in Venezuela sono state ribattezzate come “megaelezioni”. Sono “mega” per il numero di candidati – circa 70mila, appartenenti a un’ottantina di organizzazioni politiche – tra cui gli elettori sono chiamati a scegliere 23 governatori, 335 sindaci, i deputati delle assemblee legislative statali e i consiglieri comunali, per un totale di 3.082 cariche elettive.

Ma lo sono anche per l’alta posta in gioco, dopo la decisione dell’opposizione radicale rappresentata dal cosiddetto G4 (Acción Democrática, Primero Justicia, Un Nuevo Tiempo e Voluntad Popular) di partecipare nuovamente alle elezioni, sotto il cappello della Mesa de la Unidad Democrática, ponendo fine a tre anni di boicottaggio.

Non sorprende allora che tutto sia stato meticolosamente preparato per assicurare agli occhi del mondo un impeccabile svolgimento del processo elettorale. E che il governo abbia chiamato a vigilare sulla regolarità delle elezioni ben circa 300 osservatori internazionali, tra cui quelli del Centro Carter, delle Nazioni unite, del Ceela (Consiglio di esperti elettorali dell’America latina) e dell’Unione europea.

Un accordo, quello sull’invio di osservatori – un centinaio – da parte della Ue dopo 15 anni di assenza, salutato come un’importante vittoria politica per il governo Maduro, benché ad offuscarla ci abbia pensato l’alto rappresentante per gli affari esteri Josep Borrell che, in barba all’impegno di mantenere «una condotta di rigorosa imparzialità», ha indicato di fatto come obiettivo della missione elettorale della Ue quello di accompagnare l’opposizione venezuelana.

«So che gli americani non sono rimasti entusiasti», ha dichiarato l’11 ottobre in un’intervista concessa a El País: «A volte bisogna adottare decisioni soppesando vantaggi e inconvenienti. E se tutta l’opposizione si presenta alle elezioni, dobbiamo accompagnarla, perché la nostra presenza costituisce per essa una maggiore garanzia. Questo legittima Maduro? No. Quello che legittimerà o meno sarà il rapporto della Missione».

E benché a tali infelici dichiarazioni abbiano poi fatto seguito le rassicurazioni della Ue, lo spettro di un’ingerenza del tipo di quella esercitata dalla missione dell’Oea in Bolivia- risultata decisiva per il golpe del 2019 – continua ad aleggiare.

Tanto più di fronte alla consistente possibilità che l’opposizione radicale si rifiuti di riconoscere l’esito delle elezioni in caso di insuccesso, gridando alle frodi come avvenuto già tante volte in passato, malgrado l’alta affidabilità del sistema elettorale venezuelano.

Come funzioni tale sistema, sottoposto a verifiche prima, durante e dopo la giornata elettorale, è stato più volte evidenziato: dopo aver espresso la sua preferenza sullo schermo elettronico, l’elettore riceve dalla macchina la ricevuta del proprio voto e, dopo averla controllata, la inserisce nell’urna. Quindi, alla chiusura dei seggi, si procede allo scrutinio dei voti stampati, i quali devono corrispondere al 100% a quelli espressi elettronicamente.

C’è poi anche una seconda incognita: quella dell’affluenza. Secondo il più recente sondaggio dell’istituto Hinterlaces, si recherà alle urne il 52% degli elettori: un livello di partecipazione piuttosto basso secondo gli standard venezuelani, soprattutto considerando che stavolta sarà presente tutto l’arco politico (alle parlamentari del 2015 era stato di oltre il 73%).

Il calo di affluenza, del resto, riflette perfettamente la disaffezione dell’elettorato venezuelano dalla politica: più forte, indubbiamente, nei confronti di un’opposizione divisa, litigiosa, travolta dagli scandali, completamente screditata dal fallimentare “esperimento Guaidó”, ma non trascurabile neppure per il cosiddetto “madurismo”, come indicato dalla bassa partecipazione alle primarie di agosto (appena del 17,5%), oltretutto funestate da scontri (anche violenti) e denunce di irregolarità.

Una riduzione della base di appoggio, quella registrata dal governo Maduro, che si spiega non solo con la stanchezza generata dalla sfiancante crisi economica – riconducibile a sua volta, almeno in buona parte, all’embargo imposto dagli Usa – ma anche con un allontamento sempre più evidente dagli ideali chavisti, a cominciare da un’allarmante deriva capitalista che usa a pretesto la drammatica necessità di una riattivazione dell’apparato produttivo.