L’ultima settimana di luglio arriverà in aula alla camera la legge elettorale. Lo ha stabilito ieri la conferenza dei capigruppo. Ma accadrà davvero? Il dubbio c’è perché il testo che a gennaio aveva registrato un accordo di massima nella maggioranza, adesso non ha più i voti. Era stato Renzi, impuntandosi contro il sistema spagnolo proposto all’inizio da Pd, 5 Stelle e Leu, a spostare i giallo-rossi sul proporzionale con sbarramento alto. Sei mesi fa – da tanto la legge elettorale non era al centro dell’attenzione – Italia viva dichiarava di non temere la soglia al 5%. Oggi evidentemente non è più così. Il capogruppo di Iv in commissione affari costituzionali, Marco Di Maio, che pure aveva firmato l’accordo confluito nel testo di legge presentato dal presidente grillino Brescia, spiega adesso che il problema è ben altro, il problema è l’emergenza economica. Quanto al metodo di voto, anche su quello Di Maio ha da ridire perché «come ha scritto Matteo Renzi nel suo libro, il modello da cui ripartire è quello per l’elezione dei sindaci». Cioè la legge elettorale che Renzi ha già fatto nel 2015 e che la Corte costituzionale ha bocciato prima ancora che fosse mai usata.

Svolte e ripensamenti, ai quali aggiungere la contrarietà di Leu e soprattutto di quella parte come Sinistra italiana che non pensa a una convergenza con il Pd, da non sottovalutare. Anche perché l’articolo 49 del regolamento della camera prevede sulla legge elettorale votazioni a scrutinio segreto. Pd e 5 Stelle potrebbero sperare nel sostegno di Forza Italia, che con una legge proporzionale potrebbe correre da sola per rimandare gli accordi con la Lega al dopo voto. Ma anche i più ottimisti non si spingono a prevedere una rottura plateale nel centrodestra ad appena un mese dalle regionali.

Non ancora formalmente convocate, quelle elezioni sono comunemente attese per il 20 e 21 settembre in contemporanea con il referendum costituzionale. Ed è proprio questa scadenza che spiega l’urgenza del Pd, ieri infatti sono stati il capogruppo Delrio e il vicesegretario Orlando a spingere per la calendarizzazione della riforma elettorale. Il modello proporzionale che solo vagamente ricorda il sistema tedesco (giusto la soglia è uguale, ma da noi serve a eleggere 400 e non 700 deputati, senza il collegio uninominale né il doppio voto) è infatti presentato dal partito di Zingaretti come un riequilibrio al taglio dei parlamentari. Riforma che senza dubbio provoca un pesante sacrificio della rappresentanza. Se non riuscirà a incardinare la legge elettorale il 29 luglio in aula e approvarla di conseguenza entro fine agosto, il Pd potrebbe almeno spiegare di avere ottenuto un via libera in commissione entro la data del referendum. Cause di forza maggiore non mancano, e su quelle fanno leva i renziani quando dicono, con Rosato, che dedicarsi oggi al sistema di voto per il 2023 significa essere «completamente disconnessi con quello che succede fuori dal palazzo». Decreti da convertire con urgenza non mancheranno certamente neanche ad agosto, quando si annunciano ferie brevi per i deputati. E la legge elettorale fatalmente cederebbe il passo.

Siamo solo alle prime battute e malgrado la scadenza naturale della legislatura sia ancora lontana non è detto che alla fine la riforma elettorale si riuscirà a fare. Del sistema attualmente in vigore, infatti, le formazioni più piccole apprezzano la soglia di sbarramento più a portata di mano: 3%. Certo, il «Rosatellum» con la sua quota uninominale abbinata al taglio dei parlamentari può facilmente consegnare a Salvini e Meloni – persino da soli – una vittoria integralmente «sovranista», almeno a leggere i sondaggi. Ma questo dipende dal fatto che, smentendosi all’ultimo voto, il Pd ha deciso un anno fa di concedere ai 5 Stelle il taglio dei parlamentari come anticipo senza garanzie sulla legge elettorale. Una «cambiale in bianco», com’era facile prevedere, che ogni giorno che passa diventa più cara.