Sarà l’aria elettorale, sarà il temuto ritorno della destra al potere, ma riecco sulla scena il conflitto d’interessi. Evviva. Ne ha parlato soprattutto la Repubblica. Tre editoriali, dopo anni di silenzio. Ma lo ha fatto anche Di Maio in tv.

Quest’ultimo, inoltre, ha parlato anche della Rai, attaccando i tiggì che si accaniscono sulle disavventure pentastellate ( a suo dire veniali) mentre quasi ignorano quelle (certamente più gravi) del Pd nel caso Fanpage-De Luca. Di Maio poi ha promesso che una volta al governo garantirà finalmente alla Rai l’autonomia dai partiti. Obiettivo ambizioso: se ne parla almeno dalla riforma del 1975.

Il conflitto d’interesse è anch’esso un vecchio tema, nato con la discesa in campo di Berlusconi, che del genere è certo l’esponente più significativo. Ma fu subito derubricato a questione non proprio prioritaria da una sinistra pavida e rinunciataria, con responsabilità molteplici e ben distribuite, nessuno escluso. Per intenderci non se ne preoccupò Prodi, non lo fece D’Alema, non se ne curò affatto Bertinotti. S

egnale non pervenuto anche da colui che più di altri a sinistra si è occupato di tv, quel Walter Veltroni che domenica con Gentiloni ha espresso la sua netta avversione ad accordi con l’ex Cavaliere. Naturalmente tralasciamo di dire dell’ineffabile Renzi nei suoi mille giorni, ma per il semplice fatto che il problema non l’ha nemmeno messo in agenda.

E’ evidente, allora, che oggi nessuno dei suddetti uomini politici è neanche lontanamente legittimato a stupirsi ed indignarsi per la ricomparsa del Caimano, magari chiamando poi a raccolta gli elettori per scongiurarne il disastroso ritorno. Per altro verso, in questi cinque anni dal 2013 non è che il M5S abbia fatto, nemmeno lui, le barricate per mettere la questione all’ordine del giorno della politica nazionale. Ma tant’è, meglio tardi che mai.

Invece saremmo curiosi di sapere come i Cinquestelle vorranno mettere in sicurezza la Rai. In Senato tre anni fa Fico depositò un progetto che prevedeva, tra le altre cose, l’abolizione della Vigilanza e la nomina della governance Rai per sorteggio, tra una rosa di nomi con determinati requisiti. Ci sia consentito ventilare a Di Maio e Fico pure ad un’altra ipotesi. L’istituzione, ad esempio, di un Consiglio per le Comunicazioni composto da 21 membri, di cui 7 indicati dai presidenti delle Camere, 11 da sindacati, imprenditori, artisti, associazioni di utenti, università e consumatori, e 3 dalle regioni, dall’Anci e dall’unione delle provincie. Il Consiglio nomina i vertici dell’azienda della Rai (selezionandoli mediante concorsi pubblici), sia i membri dell’Autorità delle telecomunicazioni con gli stessi criteri, e quest’ultima garantisce il rispetto anche da parte della tv privata degli indirizzi che il Consiglio emana all’intero comparto tv. E poi un tetto del 45% alla raccolta pubblicitaria per ogni singolo attore di mercato.

Meglio la prima o la seconda proposta? Vanno bene entrambe, basta che s’intervenga. Con la seconda, però, aggiungiamo, ci sarebbe un’adesione importante: quella del premier Gentiloni, che la firmò e fece approvare alla Camera da ministro nel secondo governo Prodi, per poi dimenticarla e fare finta di nulla negli anni di Renzi.