«Vorrei fare il sindaco d’Italia» è il biglietto da visita con il quale si presentò Matteo Renzi sul palcoscenico della politica nazionale, quando otto anni fa si candidò alle primarie del centrosinistra ed era primo cittadino di Firenze. E non è certo la prima volta che propone, come ha fatto ieri con facile automatismo – «è l’unico metodo istituzionale che funziona» – quel modello che ha nel cuore. Anzi, tra il 2015 e il 2016 lo ha quasi realizzato, approvando una legge elettorale che prevedeva il ballottaggio nazionale tra candidati presidenti del Consiglio dietro ai quali si sarebbe composta la maggioranza della camera. E una riforma costituzionale che aumentava i poteri del governo a scapito del parlamento. Com’è andata a finire sembra però averlo dimenticato.

La legge elettorale era l’Italicum, sistema sconosciuto a livello mondiale ma che, prevedeva l’allora presidente del Consiglio, «presto tutti ci copieranno». Nessuno lo ha copiato e anzi non è stato mai applicato nemmeno da noi, perché la Corte costituzionale lo ha bocciato in due punti fondamentali.

La riforma costituzionale del 2016, oltre a ridurre i parlamentari per tagliare i costi (i 5 Stelle hanno solo copiato) e a trasformare il senato in un dopolavoro per consiglieri regionali, attribuiva al governo il potere di imporre una data ravvicinata e certa entro la quale il parlamento avrebbe dovuto votare le leggi fondamentali per il programma. Accanto ai decreti e alle leggi delega di cui allora come ora si fa abuso. La riforma, è noto, fu bocciata dagli elettori nel referendum costituzionale e proprio per questo Renzi dichiarò che avrebbe lasciato la politica. Che non lo abbia fatto non è un problema, che insista con le stesse soluzioni può esserlo.
Anche perché proprio Renzi nel frattempo ha portato la maggioranza M5S-Pd-Leu-Italia viva a firmare un accordo per una legge elettorale proporzionale con sbarramento al 5% che inizialmente vedeva perplessi gli «alleati». Il modello «sindaco d’Italia» rovescia all’improvviso quella impostazione.

Eppure non giunge nuovo, anche se il precedente del tentativo Maccanico citato da Renzi non è del tutto corretto. Il premierato forte – «premierato assoluto» lo chiamava Leopoldo Elia – era tra le ipotesi della commissione bicamerale per le riforme presieduta da D’Alema (1997), finita in minoranza in favore del semipresidenzialismo. Ma recentemente chi ha posto il problema che bisognerebbe aumentare i poteri del primo ministro è stato Nicola Zingaretti.