Il reato è il caporalato. La condanna è la prima in Italia e non riguarda più l’agricoltura, ma l’economia delle piattaforme digitali specializzata nel consegnare pizze e altre merci a domicilio. Anche nell’«economia dei lavoretti» («gig economy») si sfruttano i lavoratori (i ciclofattorini, i rider) come i braccianti, soprattutto migranti, nella raccolta di pomodori nelle campagne di tutto il paese. Per questa ragione ieri, a Milano, la giudice dell’udienza preliminare Teresa De Pascale ha inflitto una pena di 3 anni e 8 mesi a Giuseppe Moltini, uno dei responsabili delle società di intermediazione coinvolte nell’inchiesta del Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza di Milano. Tre mesi fa, nell’udienza preliminare, avevano patteggiato Leonardo Moltini e Danilo Donnini, rispettivamente a 3 e 2 anni. Per quest’ultimo la pena è stata sospesa. L’inchiesta del pubblico ministero Paolo Storari ha portato al commissariamento della filiale italiana di Uber il 29 maggio dell’anno scorso, poi revocato perché l’azienda ha adottato una serie di contromisure. Pena di 1 anno e 6 mesi per favoreggiamento è stata inflitta a Miriam Gilardi. A luglio De Pascale ha rinviato a processo Gloria Bresciani, manager sospesa di Uber, con l’accusa di caporalato sui fattorini. L’udienza è fissata lunedì . Rinviata a giudizio un’altra società di intermediazione, imputata per la legge sulla responsabilità amministrativa.

La Gup ha deciso di convertire il sequestro di circa 500 mila euro in contanti disposto nelle indagini in un risarcimento da 10mila euro a testa per i 44 fattorini che hanno lavorato tra Milano, Torino e Firenze e si sono costituiti come parti civili nel procedimento. Ventimila euro sono stati riconosciuti anche alla Cgil e alla Camera del Lavoro di Milano. I risarcimenti sono immediatamente esecutivi. La giudice ha già disposto il pignoramento delle somme. «Questo risultato è stato reso possibile grazie alla legge sul contrasto del caporalato (199/2016) fortemente sostenuta dalla Cgil» hanno commentato la Cgil nazionale e la Camera del lavoro.

«Ricordiamo che se conoscete fattorini che abbiano lavorato per questa società dal 2018 e il 2019 è ancora possibile costituirsi parte civile per fare causa all’azienda – sostiene il sindacato sociale autorganizzato Deliverance Milano – la responsabilità penale e civile non possa essere scaricata sulla società di outsourcing perché la multinazionale sapeva e la dirigenza era informata sulle condizioni di lavoro in cui vertevano rider che lavoravano per Uber. Anche la compagnia americana paghi e risponda dei propri soprusi di fronte al Tribunale di Milano e ai lavoratori sfruttati».

La sentenza è innovativa perché riconosce l’esistenza dell’intermediazione illegale di manodopera anche nell’economia digitale. In questo caso i rider erano pagati a cottimo «3 euro», «derubati» delle mance e «puniti» con una decurtazione dei compensi. Dalle carte dell’inchiesta è emerso che i ciclofattorini erano reclutati in «situazioni di emarginazione sociale» e spesso erano costretti a implorare per giorni la loro magra paga. Dall’azienda beneficiaria del lavoro i rider erano «solo dei puntini su una mappa da attivare o bloccare a loro piacimento» al fine di «ottimizzare il servizio della piattaforma e far guadagnare Uber il più possibile». L’attività dei rider si svolgeva in un clima di «forte sfruttamento, intimidazione e prevaricazione».