L’immagine del tigrotto accoglie allegramente i viaggiatori appena scendono dal treno alla stazione di Rotterdam Centraal a dirci che il festival è una manifestazione per tutta la città, invasa in questi giorni dalla sua presenza nei caffè, nei ristoranti, nelle gallerie; e non solo, visto che sono in molti a arrivare dal resto dell’Olanda per seguire le proiezioni, specie le anteprime di mercato – tra le altre Uncut Gems dei fratelli Josh e Benny Safdie sempre sold out – o i film dei giovani cineasti che raccontano storie di conflitti (migrazioni, disparità sociali) o sentimenti del contemporaneo. Questa edizione 2020 è stata anche l’ultima di Bero Beyer, il sorridente e affabilissimo direttore che dal 2021 passa il testimone a Vanja Kaludercic alla quale spetterà l’organizzazione del cinquantenario della rassegna olandese.

MA CHE FESTIVAL è diventato l’IFFR in questo millennio? Sempre più una grande macchina di pubblico e soprattutto di mercato, intendendo con quest’ultimo anche la parte di incontri tra produttori, programmatori; verrebbe da dire alla futura direzione di riformulare l’andamento delle sezioni che «stipano» – letteralmente – titoli su titolo col rischio di oscurarli reciprocamente, o talvolta con l’impressione che ciascuno dei molti curatori vada un po’ per conto suo senza troppo guardare ciò che fanno gli altri. È anche vero che «asciugare» a questo punto, visto l’alto numero di sale, è diventato impossibile, multiplex come il più storico Pathé o il Cinerama o il «nuovo» – nonostante ormai avrà una decina di anni – Lantaren Venster, magnifica costruzione con le vetrate sospese sul mare che ha preso il nome della sede storica del festival negli anni ’70 divenuta oggi Kino programmano tutto il giorno – a proposito: viene da chiedersi: perché in Italia spazi come questi non esistono e anche solo pensarli per festival importanti o nelle città diviene occasione di infinite discussioni in cui si invecchiano generazioni?

NON TUTTO è sold out, più difficile è intercettare il pubblico con le proposte sperimentali o con quegli autori un po’ «outsider», la situazione è cambiata pure qui rispetto a quando le produzioni più radicalmente indipendenti erano la cifra distintiva della selezione. C’è però una cinefilia (internazionale) giovane, immersa nella sala buia (come se non ci fosse un domani) che nelle scelte si fa guidare da quel sentimento «vintage» di una nostalgia per qualcosa che non è si è vissuto: una memoria cinefila sedimentata nel movimento dei fotogrammi. È questa anche una delle molte suggestioni che circolano nel mega-programma, e che unisce nel nostro cinema generazioni molto diverse, da un esordiente come Erik Negro, coi suoi viaggi raccolti durante gli anni in Non c’è nessuna Dark Side, a Due scatole dimenticate di Cecilia Mangini (co-regia Paolo Pisanelli), la più intraprendente dei nostri documentaristi, capace di sfidare le regole del cinema italiano con la sua macchina da presa confrontandosi con la realtà italiana da regista, cosa ai tempi dei suoi inizi, la fine degli anni Cinquanta, impensabile, e con soggetti provocatori nella loro poetica politicità, difatti censurati come nel caso delle collaborazioni con Pasolini (Ignoti alla città, 1958). Parlava di donne, di lavoratrici e di lavoratori, delle periferie italiane non solo quelle delle grandi città, dei sogni frustrati del sud sedotto dall’incanto industriale, delle campagne abbandonate, di un’Italia resa invisibile Cecilia Mangini nei suoi lavori. Le scatole dimenticate del film presentato qui in prima mondiale sono quelle di un progetto di un film in Vietnam: appunti, ricordi di un viaggio che porta lei e suo marito, Lino Del Fra nel Vietnam in guerra contro gli americani, ma sopratutto fotografie che Cecilia scatta cogliendo tra gli istanti di volti, giovani, innamorati, bambini, il sentimento di quanto stava accadendo. Il film non si fece mai, Ho Chi Minh decise che per un occidentale era impossibile rimanere lì. Restano quelle tracce, quelle memorie che la stessa Cecilia ammette si confondono sul filo della sua memoria sempre più incerta. Ciò che ci aprono però quelle scatole scovate per caso (?) tra i molti oggetti e cimeli di un lavoro è forse l’essenza stessa di quel fare cinema, che era un coinvolgimento alla prima persona ma sempre collettiva cercando il confronto con la propria storia e il proprio tempo ancor più quando questi interrogavano le certezze. Mostrandole è come se Cecilia ci conducesse nel suo laboratorio più intimo di filmmaker: è commuovente e emoziona.

Un’immagine da «With Love – Volume One 1987-1996» di Michael Pilz

UN DIARIO nel tempo è il lavoro di Michael Pilz, With Love – Volume One 1987-1996 in cui il cineasta austriaco, considerato una delle figure di riferimento nel cinema moderno da molti studiosi e critici, nonostante la difficoltà a circolare della sua opera – a rivelarlo dopo molti anni di opere quasi «clandestine» è Heaven and Earth, film epico sul villaggio di Sant’Anna nella Storia – raccoglie come ci dice il titolo dieci anni di girato. C’è molto di più, questo viene infatti definito un «Volume 1», perché l’idea di Pilz è quella di comporre un film in progress con tutto ciò che ha girato nella sua vita, quasi una summa del suo pensiero sul cinema e sull’arte. Ambizioso? Sì, e potrebbe apparire anche altisonante, in realtà le immagini che formano questo magnifico lavoro sono semplici e dirette, ci parlano del senso del filmare – e del suo sentimento – nella grana della vita che scorre, racchiusa nel disegno sul vetro appannato tracciato dal dito di una bimba – la figlia del regista – il cui sguardo ritroviamo anni dopo adolescente, nelle persone che ne fanno parte, nelle scoperte, in quella riflessione costante sul cinema a partire dal gesto stesso del filmare.
With Love sta nella tendenza dell’home movie «jonasmekiano» (e di molto underground) e proprio Jonas Mekas vi appare, New York è il suo sorriso, sono le stanze del Film Archive pieno di ragazzi, l’allegria di una sera al bar pieno di folla, con One degli U2 a dirci che sono gli anni Novanta. E poi le conversazioni sul senso dell’immagine o più semplicemente sulle vitamine di Robert Frank nella cucina della sua amica al mattino, di nuovo l’Austria, altre immagini, questo girare continuo, che è la sfida del regista, in cui il mondo si dipana coi suoi momenti, il tempo si fa storia e percezione soggettivissima, entra nel cuore dello spettatore, diviene memoria filmica e insieme suo possibile insegnamento.

NELLA STESSA sezione – The Tyger Burns (William Blake), tra le più compatte nella programmazione – è stato presentato anche il nuovo film di Karel Vachek: Communism and the Net or the End of Rapresentative Democracy, lunghissimo (oltre cinque ore) e irriverente saggio sulla storia e il presente della Repubblica ceca, tra l’indipendenza e l’affermazione assoluta del liberismo che governa tutto il mondo. Vachek mischia stili, riferimenti, volti, materiali, con l’ironia che attraversa l’intera sua opera – di cui viene definito «la somma». Non so se sia così, di certo Vachek, punito dal regime comunista sin dalla scuola, la Famu di Praga, la stessa di altri protagonisti della nuova onda cecoslovacca, per il suo film di diploma, Moravian Hellas, e poi nel 68, quando durante la Primavera di Praga girò Affinità elettive, sulle elezioni presidenziali di quell’anno, costretto a abbandonare Kratky Film, lo studio di produzione cinematografica a Praga, e a emigrare in America, non ha perduto lo spirito da «ragazzo terribile» della nova vlna. Eccolo dunque alle prese col mondo di oggi e con le domande che pone la sua rappresentazione: come restituirlo? La sua narrazione non procede in modo univoco, seguendo un solo stile, preferisce mescolare in maniera talvolta anche convulsa generi e riferimenti; il primo obiettivo è spiazzare chi guarda, noi spettatori, costringendoci a occupare un punto di vista mai accomodante, persino faticoso fino a all’irritazione. Un vero allenamento, il suo, al guardare che parte dall’ispirazione dei dipinti del fratello, Petr, autore di enormi composizioni: il mondo è quindi una tavola alla Bosch? Mentre le ideologie sono il panottico che ne permettono un accurato controllo, la rete oggi come i regimi ieri? Difficile dare una risposta unica, appunto, i percorsi si intersecano, sviano, compiono continui detour, tra la politica del suo Paese, denaro e potere e corruzione, la tradizione ceca, la filosofia, il pensiero, persino una nostalgia (ma se fosse invece una trovata umoristica?) per i bei vecchi tempi. Già, ma quali?
Ciò che emerge più nettamente da questo suo enorme bagaglio è una rivendicazione di libertà anarchica, sfacciata a ricordare le insidie per la democrazia, passate e presenti forse peggiori perché accettate come parte della nostra vita, messa in ogni dettaglio in rete sotto controllo.