Sono passati nove anni e venticinque giorni dalla morte di Giovanna Reggiani, seviziata e uccisa nel buio di un parchetto adiacente alla metro di Tor di Quinto a Roma. Su quel femminicidio, per mano di un immigrato rumeno, Romulus Nicolae Mailat che rimpatriato in Romania sta scontando l’ergastolo in un carcere di Bucarest, si accesero di colpo i fari accecanti dei media. Cecilia D’Elia, femminista, che allora era assessora alle pari opportunità nella giunta capitolina del sindaco Veltroni, e ora collabora con la giunta di Nicola Zingaretti proprio dirigendo la cabina di regia del protocollo regionale che monitora il linguaggio dei media sulle questioni di genere, ha ricordato quei momenti proprio ieri – Giornata mondiale contro il femminicidio e la violenza sulle donne – a un seminario dell’Associazione Stampa Romana.

Cosa ti fa venire in mente il caso Reggiani oggi?

Giornate come questa servono anche come occasioni per riflettere e mettersi in discussione. Quei giorni per me, che ero nella giunta capitolina, furono molto dolorosi e lo sono tuttora nel ricordo, ma servono, devono servire, a interrogarsi su ciò che successe e su come l’episodio fu trattato, in modo molto deleterio, dai media. Sviscerare il problema, analizzare la narrazione che fu fatta è molto importante perché serve a mettere in luce i meccanismi di distorsione del reale da cui possono discendere politiche sbagliate. Quel fatto fu raccontato come un femminicidio che riguardava i rumeni e come il segnale di una emergenza sicurezza per le donne che rigiardava le strade di Roma e gli immigrati, gli stranieri. Mentre ora sappiamo bene che questa è una impostazione errata al pari di quella che parla di raptus e di amore. La stragrande maggioranza dei femminicidi e delle violenze sulle donne avviene ad opera non di stranieri e sconosciuti ma di maschi che le vittime conoscono bene, spesso sono i loro mariti e compagni, e le violenze sono commesse tra le mura domestiche, non di rado sotto gli occhi dei figli.

Sul caso Reggiani fu messo in crisi l’ultimo governo Prodi, fu un uso strumentale della notizia, ma perché tutta l’informazione mainstream cadde in quella trappola?

È molto di più ciò che andò perduto allora su quella narrazione sbagliata. Fu un momento di svolta. Cadde il governo ma anche Roma. Fu un momento molto duro e tutto andò rubricato alla voce sicurezza. È molto semplice soffiare sulla paura dello straniero per le proprie donne, un timore arcaico. Anche a Colonia lo scorso capodanno è stato evocato lo stupro di massa e credo che il meccanismo innescato sia stato lo stesso. Invece bisogna fare conti con noi stessi, i maschi in particolare, con la propria cultura maschilista, che è un dato strutturale della nostra società. È importante che questa battaglia sia vissuta come un’emergenza e come un dato strutturale, che sta dentro rapporti diseguali in cui si considera l’altro e in cui comportamenti reiterati tendono a svilirae e a isolare la donna. Il femminicidio deve uscire dalla cronaca nera. E le questioni di genere devono entrare nell’educazione e non essere trattate in modo stereotipato.

Cosa si propone il protocollo fresco di stampa della Regione Lazio su questo rapporto con i media?

Si tratta di rafforzare un monitoraggio che già c’è e finanziare esperienze importanti, ma anche vigilare su come vengono scritti gli stessi atti delle amministrazioni. Niente è scontato, basta vedere il caso dello spot che ha mandato in onda la Rai: ma come si fa, dico, a dire a una bambina che il suo destino è finire in ospedale picchiata dal marito? E poi al nostro monitoraggio partecipa anche l’università: il nostro intento è fare ricerca.

Il linguaggio, specie se in uso in tv e sui media, non è neutro. Anche quello della politica. Virginia Raggi all’inizio rifiutava di farsi chiamare sindaca…

Sì, lei non voleva ed è una spia, quando non declini il tuo genere e ti attacchi al dizionario. Ma la lingua, come la politica, è una cosa viva, e a poco a poco si può cambiare.