Settanta come i partigiani che respinsero l’offensiva fascista composta da oltre duecento militi repubblichini. Settanta come gli anni trascorsi da quella data storica, il 6 aprile 1944, la cosiddetta «battaglia di Monticchiello», eroico episodio della Resistenza italiana avvenuto nel piccolo borgo medioevale in pietra posto su un altura a pochi chilometri da Pienza, nella suggestiva cornice toscana della Val D’Orcia.

«Dobbiamo dire grazie alla rete di mezzadri che si strinse intorno a noi – racconta Aristeo Biancolini, partigiano appartenente alla Brigata Mencatelli che partecipò in prima persona allo scontro armato – senza l’appoggio popolare dei monticchiellesi non saremmo mai arrivati a un tale successo militare». Approfittando delle mura medioevali, un tempo baluardo della Repubblica senese, la formazione partigiana guidata da Walter Ottaviani, nome di battaglia Scipione, seppe arginare la netta superiorità numerica della fazione avversa, resistendo per oltre due ore agli attacchi della milizia fascista fino alla sua fuga. Tra i combattenti partigiani risultarono due vittime, Mario Mencatelli, insignito della Medaglia d’oro per la Resistenza e ucciso nel tentativo di rifornire munizioni ai compagni di battaglia, e Marino Cappelli. L’eco della vittoria rimbalzò non solo a Siena e in tutta la Toscana, ma valicò i confini nazionali e venne ritrasmessa con clamore anche da Radio Londra che sottolineò i numeri della cocente sconfitta fascista tanto da indurre Mussolini a un’opera di propaganda demistificatoria per coprire l’onta subita.

La reazione tedesca non si fece attendere. I rastrellamenti arrivarono il giorno seguente. Nonostante partigiani e contadini riuscirono a nascondere armi e munizioni in tempo, la popolazione fu schierata al muro per diverse ore con le mitragliatrici puntate sui civili inermi. Solo grazie all’intervento presso il comandante del reparto tedesco da parte del parroco Marino Torriti e della signora tedesca Imar Angheben, moglie di un latifondista locale, si evitò la strage.

Eccidio che invece si era verificato alcuni giorni prima, il 28 marzo 1944, quando sul Monte Maggio a Monteriggioni la Guarda nazionale repubblicana aveva fucilato senza processo diciannove partigiani per lo più ventenni appena ricongiunti con le brigate garibaldine.

«Viva la Resistenza, Viva la Costituzione, Viva l’Italia». Ripete chiudendo il proprio intervento Simone Bezzini, presidente della provincia di Siena. Aristeo sorride: «Noi lasciamo parlare i politici, non siamo esibizionisti – e facendosi più serio – abbiamo pudore a parlare di quei giorni, ci si uccideva tra amici e fratelli, questo è l’orrore della guerra, l’orrore del fascismo».

La cerimonia è proseguita con l’inaugurazione di un’installazione di arte contemporanea nel museo comunale a opera di Emo Formichi. Realizzato con materiali di scarto ferroso, la scultura riprende l’angosciante attesa dei popolani monticchiellesi a braccia alzate di fronte ai soldati della Wermacht riprodotti con parti meccaniche e attrezzi da lavoro. In chiusura lo spettacolo teatrale a cura di Francesco Burroni e Silvia Bruni La rana gracida, una storia partigiana ha messo in scena le vicende di Renato Masi, diciannovenne senese evaso dal carcere di Parma a seguito del bombardamento degli Alleati ed entrato tra le fila partigiane che operarono per tutta la provincia di Siena seguendo il fronte fino alla liberazione del Nord Est d’Italia. Torturato e incarcerato, rincontrò a guerra terminata i propri carnefici senza alcuna esigenza di vendetta: «Noi eravamo diversi da loro per motivazioni e spirito – recita Burroni nella parte di Renato, nome di battaglia Gino – con la violenza e le torture trovavano diletto, noi lottavamo solo per un mondo migliore».