L’incredibile storia dell’uomo che dall’India arrivò in Svezia in bicicletta per amore di Per J. Andersson (Sonzogno, pp. 299, euro 17, traduzione di Giulia Pillon e Alessandra Scali), mantiene ogni promessa fatta al lettore sin dal titolo. L’autore, co-fondatore della rivista per viaggiatori svedese «Vagabond», misurandosi per la prima volta con la forma del romanzo racconta la storia vera di Pikey, ritrattista originario dello stato dell’Orissa, folgorato dall’amore per Lotta, diciannovenne svedese conosciuta a New Delhi a metà anni Settanta.

In linea con lo spirito dell’epoca, quando l’India diventava meta obbligatoria per le carovane di hippie occidentali che si spingevano a Est in cerca di avventura, spiritualità, droghe e libertà, contro ogni cinico disincanto Pikey, con poche rupie in tasca, decide di inforcare la bicicletta e pedalare contromano lungo l’«hippie trail». Cinquemila chilometri in cinque mesi, attraversa il subcontinente indiano e il vicino oriente per amore, finanziandosi con decine di ritratti venduti ai viaggiatori occidentali che stipavano le guesthouse a buon mercato e le bettole: una grande famiglia oltre i confini, le religioni e le classi che accoglie senza riserve un giovane indiano sognatore e dal cuore imbarcatosi in un’impresa eccezionale.

A una lettura superficiale, la storia di Pikey può sembrare «solo» una favola d’amore a lieto fine, un brogliaccio per una maestosa commedia romantica sulla quale diverse produzioni cinematografiche mondiali hanno già messo gli occhi. Ma tra le pieghe del registro semplice e spontaneo adottato da Andersson per raccontare l’infanzia e la crescita di Pikey, il cui amore per Lotta gli viene profetizzato dall’astrologo del suo villaggio, il romanzo cela contenuti politici dirompenti che gettano luce sulla barbara insensatezza del sistema delle caste indiano, architrave dello sfruttamento nell’India indipendente di ieri e di oggi.

PIKEY, infatti, non è un banale e generico «indiano della giungla»: nato da padre dalit (volgarmente, «intoccabile») e da madre adivasi (i tribali indiani, abitanti del subcontinente precedenti all’arrivo della «cultura vedica» dall’Asia Centrale), per la società indiana è condannato a un’esistenza da essere umano di serie b.
Discriminato dall’élite bramanica del villaggio, a Pikey come al resto della comunità dalit locale – in quanto «impuri» – è proibito ogni contatto col resto della popolazione: vietato attingere acqua dal pozzo, vietato entrare nel tempio, vietato sfiorare i non-dalit. La crudeltà cui viene sottoposto Pikey durante le scuole elementari, condannato a sedersi fuori dalla classe per non «contaminare» i propri compagni e a restare in aula quando gli altri scorrazzano in cortile durante la ricreazione, contribuisce a far nascere nel giovane dalit il mito di un’Europa sinonimo di libertà e uguaglianza, tanto da far riconsiderare amaramente la conquista dell’indipendenza nazionale.

Quarant’anni dopo, seduto in un caffè nel centro di Roma al fianco della moglie Lotta e del figlio Karl, Pikey ricorda: «Mi piaceva molto l’idea dell’India britannica perché all’epoca, raccontava mia nonna, lei poteva sedersi in classe col resto dei bambini, e mio nonno sedeva qualche fila più indietro. L’idea che in Europa ci fosse qualcosa di buono è stata nella mia testa fin dall’infanzia, e ancora non se n’è andata. La mia esperienza, rispetto ai miei nonni, è stata diversa. Sono entrato a scuola nel 1956 e ora che gli indiani erano al potere non mi era permesso di entrare in classe. Per questo pensavo che la cosa migliore, per gli ultimi, fosse l’India coloniale».

LA VITA di Pikey, in questo senso, è stata una costante ricerca di libertà condotta per gradi. Ansioso di lasciarsi indietro le discriminazioni quotidiane del villaggio, grazie al suo talento artistico Pikey si trasferisce a New Delhi, nella capitale, per proseguire studi in arti visive presto accantonati per motivi economici. Alle aule dell’università, Pikey preferisce l’arte di strada, presidiando con tele e pennelli lo spazio antistante l’enorme fontana che all’epoca si stagliava al centro di Connaught Place, proprio davanti la vecchia Indian Coffee House, caffetteria a buon mercato istituita durante l’occupazione britannica ora brulicante di hippie «in maglietta e jeans con toppe floreali».

A CONTATTO con una gioventù completamente avulsa da qualsiasi imposizione sociale occidentale, figurarsi la discriminazione castale indiana, Pikey trova conferma dell’assurdità della propria condizione subalterna imposta dalle norme della società bramanica. L’incontro con Lotta a New Delhi, a conferma dell’oroscopo che lo predestinava a passare la propria vita con «una donna venuta da un altro continente», per Pikey diventa l’ultimo segnale necessario a convincersi dell’urgenza e dell’ineluttabilità di un cambio radicale: andarsene dall’India, seguire l’amore, compiere il proprio destino.

«Volevo creare una famiglia globale oltre le caste, oltre le razze, oltre le classi. Era il mio destino, era scritto nell’oroscopo. Mia madre mi diceva sempre che io ero come un seme. Se pianti un seme di banana e lo annaffi, crescerà un albero di banane, non di cocco. Io sono un seme e questo è il seme della mia famiglia globale: non un seme da matrimonio combinato, un seme di casta. Sono libero, pensavo, e sposerò l’amore della mia vita».

PER UN RAGAZZO dalit dell’Orissa, amore e libertà non possono che sovrapporsi, esplodendo in un istante che un Pikey quasi settantenne, con Lotta al suo fianco, ricorda così: «Quando sono arrivato in Svezia mi sono sentito sollevato da un enorme peso: me n’ero andato, mi ero lasciato il sistema delle caste alle spalle. Quando Lotta mi ha baciato per la prima volta ho pensato “Allora non solo posso essere toccato, ma posso essere addirittura baciato!”. Improvvisamente mi sono sentito altissimo, come a toccare il cielo. Ero paralizzato dalla felicità ma sentivo che qualcosa era cambiato, la mia prospettiva era cambiata. Sin da bambino, al di fuori della mia famiglia, nessuno mi aveva mai toccato, e ora questa ragazza arrivata da lontano mi baciava. Non riuscivo a dormire, ero così felice! Mi ha cambiato la vita».

Pikey e Lotta vivono insieme dal 1976, hanno due splendidi figli e dalla pubblicazione del libro tratto dalla loro vera storia d’amore, nel 2013, portano in giro per il mondo un messaggio rivoluzionario. «Proveniamo tutti dalla stessa sorgente e solo la mente, con la paura, ci divide. La paura è l’arma più pericolosa, la minaccia con cui ci imprigioniamo. Questo libro si sta diffondendo e la nostra famiglia si sta espandendo. Piano piano il mondo sarà unito» dice Lotta. Pikey, che per amore e libertà ha pedalato per mezzo mondo, sorride e chiosa: «Essere uniti ci dà speranza. Quando siamo divisi soffriamo. Essere uniti, nella società e nella famiglia, significa coltivare la speranza».

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SCHEDA

Pikey e Lotta, in seguito all’enorme successo riscontrato in Europa dal loro libro, hanno sovvenzionato una serie di progetti in Orissa e nel resto dell’India mirati all’emancipazione femminile e della comunità dalit. In collaborazione con le Nazioni Unite, una versione a fumetti del libro – tradotta in cinque lingue locali – è stata distribuita in modalità no profit a migliaia di studenti e studentesse indiane, contribuendo alla sensibilizzazione sul tema della discriminazione castale che ancora oggi interessa decine di milioni di dalit in tutta l’India.