Le polemiche del governo italiano per la scarsa solidarietà europea, che hanno occupato le pagine dei giornali la scorsa settimana, sono comprensibili e in parte fondate: il vice-direttore di Frontex riporta nei primi mesi del 2014 un aumento dell’823% di arrivi (un dato influenzato in parte dai maggiori controlli). Ma dalle critiche fondate al puro marketing elettorale il passo è breve: e nelle baruffe, soprattutto in vista del semestre di presidenza italiano del Consiglio europeo, il rischio è quello di sprecare l’ennesima opportunità per migliorare realmente la situazione.
Limitarsi a una guerra di numeri può essere controproducente. Se è vero che Mare Nostrum costa all’Italia 9 milioni al mese, 12 sono i milioni stanziati da Frontex per il 2014 su un budget per attività operative di circa 47 milioni di euro, 500 milioni messi a disposizione in 5 anni dall’Ue per migliorare il sistema nazionale di assistenza ai profughi, molti dei quali non utilizzati o mal spesi, cui si aggiunge un puzzle di operazioni come Seahorse e la missione Eubam in Libia, progetti bilaterali e multilaterali nell’ambito della Politica di Vicinato.
Quella che è apparentemente una sproporzione di cifre, però, non è che la rappresentazione della sottile ripartizione di competenze fra Europa e stati membri sancita dai Trattati. Finché sulla gestione delle frontiere esterne, la politica estera e gli affari interni avranno prevalente competenza i governi nazionali, questo si rifletterà sulle allocazioni ad essi destinate. Inoltre, il dispiegamento di costosi mezzi dell’aeronautica militare italiana risponde certamente all’imperativo di salvare vite umane, ma sottintende anche la scelta di farlo, innanzitutto, militarizzando le frontiere.
Anche i numeri dell’emergenza devono essere maneggiati con cura. Lavorare a una revisione della normativa comune in materia di asilo è possibile, ma durante il negoziato di luglio sulla normativa europea Dublin III, i paesi del nord hanno contrastato ipotesi di deroghe esibendo numeri ben più alti dei nostri. Dei 100.000 richiedenti asilo in più rispetto al 2013, 50.000 hanno fatto domanda in Germania e la Svezia è lo stato con il maggior numero di richieste, seguito da Germania, Francia, Inghilterra e Belgio.
Sul fronte negoziale, solo la Grecia si è trovata a difendere la proposta italiana di un alleggerimento del criterio di responsabilità dello stato di prima accoglienza. Affrontare la questione cercando innanzitutto l’appoggio degli altri paesi mediterranei sarebbe più auspicabile dell’attuale muro contro muro.
Allo stesso modo, è inutile chiamare in causa la Commissione europea se i governi non sono disposti a una ridistribuzione dei flussi secondo un meccanismo di burden sharing obbligatorio. In parte perché la solidarietà non si impone, in parte perché, di fatto, la ridistribuzione avviene spontaneamente nel momento in cui i migranti proseguono il viaggio verso il resto dell’Europa. Aprire il dialogo ripartendo dai modesti successi passati di ricollocazione volontaria è, al momento, l’unica via percorribile.
Quanto alla claudicante Frontex che dovrebbe, secondo Angelino Alfano, «occuparsi del soccorso in mare e spostare la propria sede in Italia», il discorso è complesso e richiama quanto detto prima rispetto alle competenze concorrenti. Frontex si muove all’interno del proprio mandato, sancito all’unanimità dal Consiglio. Le sue responsabilità sono di coordinamento e valutazione, di formazione professionale delle guardie in servizio, di appoggio nelle operazioni di rimpatrio, di risk analysis e ricerca.
Istituire un reale sistema europeo di controllo delle frontiere esterne significa per i paesi europei cedere la parte di sovranità per eccellenza e accordarsi sulle regole di gestione.
L’opposizione di Italia, Grecia, Malta, Francia, e Spagna alla riforma di Frontex presentata in Consiglio lo scorso ottobre, che prevedeva modalità comuni per l’ingaggio e per le operazioni di soccorso e salvataggio dimostra che anche la disponibilità dei governi principalmente interessati dalle rotte è circoscritta. Come precisa la nota congiunta: «il Consiglio ricorda che le operazioni di ricerca e salvataggio in mare sono di competenza degli stati membri e che l’Europa non ha la competenza per legiferare in dettaglio, come la Commissione cerca di fare». Che una riforma dell’Agenzia sia necessaria è evidente, come dimostra la modifica al regolamento Frontex approvata dal Parlamento europeo lo scorso 16 aprile ed accolta come «importante passo avanti» dal ministro degli Esteri Mogherini, ma si tratta di un mandato complesso da rinegoziare e sul quale le posizioni diventano facilmente contraddittorie.
Mentre si susseguono i botta e risposta su cifre e responsabilità, rimangono sullo sfondo i dubbi sull’efficacia di una strategia prevalentemente difensiva.
Parlare di Mediterraneo, infatti, non basta. Siriani, somali o cittadini della Repubblica Centrafricana fuggono da tragedie umane rispetto alle quali la morte in mare è un rischio che vale la pena correre. Lo stesso si può dire per i 12 milioni di abitanti del Sahel colpiti dalla crisi alimentare. Il nesso fra migrazione, sviluppo e impegno umanitario è fondamentale.
Chiedere all’Europa di intervenire significa, quindi, rafforzare la politica estera comune affinché sblocchi con un intenso lavoro diplomatico l’accesso agli aiuti alla popolazione siriana, a oggi fermi al confine. Significa ripensare gli accordi di libero scambio e valutare l’impatto di un obiettivo come quello del 10% di biocarburanti entro il 2020 su fenomeni come il land grabbing. Significa rispondere senza ipocrisie, nell’ambito della Politica di Vicinato, alle richieste di facilitazione dei visti avanzate da anni da paesi come Tunisia e Marocco per una migrazione circolare legale, spesso tradottesi in dichiarazioni politiche che alimentano frustrazione e antieuropeismo.
Tutto ciò dipende da un’Europa intesa non in senso astratto, ma come somma di 28 stati che danno quotidianamente mandato alla Commissione di agire (o non agire) sui temi di rilevanza comunitaria, stanziano (o bloccano) finanziamenti, delegano (o mantengono) la sovranità sulla gestione delle frontiere e la politica d’asilo. Difficile, quindi, risalire all’origine delle responsabilità: il burden sharing è anche questo.