Il 18 febbraio, contrariamente alle previsioni più rosee, non è stato il giorno della verità per il destino dei marò. Un nuovo rinvio da parte della Corte suprema, riunita nella mattinata per esaminare la legittimità dei capi d’accusa nel caso che vede i sottufficiali Massimiliano Latorre e Salvatore Girone indagati per l’omicidio dei pescatori Ajesh Binki e Valentine Jelastine, ha scatenato la durissima reazione della diplomazia italiana, decisa a chiudere nell’angolo un’India incapace di decidere la linea da tenere nella vicenda Enrica Lexie.
Il ricorso alla legge anti pirateria Sua act, dato per certo una settimana fa dal procuratore generale Vahanvati, ieri mattina è stato nuovamente messo in discussione, con la richiesta da parte dell’accusa di un’altra settimana di tempo per trovare una convergenza definitiva tra la linea soft degli Esteri indiani – che preferirebbero proseguire nel dibattimento utilizzando altre leggi del Codice indiano – e quella intransigente dettata dagli Interni, col ministro Sushilkumar Shinde deciso a non mostrarsi deboli a pochi mesi dalle elezioni nazionali.

Tutto rimandato al prossimo 24 febbraio, dice il pool di giudici, ma l’Italia non resta a guardare.

Poche ore dopo il rinvio di Delhi, il ministro degli Esteri Emma Bonino, con un comunicato stampa, annuncia di aver richiamato in Italia l’ambasciatore in India Daniele Mancini «per consultazioni», in risposta alla «manifesta incapacità dell’India di gestire la vicenda». E non è tutto. Nello stesso pomeriggio l’ambasciatore indiano a Roma Basant Kumar Gupta viene convocato dal Ministero degli Esteri italiano per essere messo al corrente della «perplessità e profondo disappunto» di Roma, ricevuto non dal ministro ma dal segretario generale della Farnesina. Nella dialettica diplomatica, un messaggio di sdegno che mantiene però intatti i rapporti tra i due paesi.

Italia e India ora però sono davvero ai ferri corti, in un progressivo logoramento del rapporto di sostanziale collaborazione, tessuto dall’inviato speciale del governo De Mistura, causato dai continui rinvii in aula. Quello di ieri è stato il ventiseiesimo e se in precedenza gli ostacoli nel farraginoso iter burocratico-giuridico erano stati messi anche dalla diplomazia italiana – la minaccia di mancato rientro in India di Latorre e Girone e il braccio di ferro sull’interrogatorio degli altri quattro marò, su tutti – ora la dilatazione dei tempi processuali è davvero interamente imputabile al governo indiano.

I continui rinvii, ha spiegato De Mistura, sono chiaramente «un segno della difficoltà del governo indiano», che alcuni danno in affanno a causa del pressing internazionale operato nelle ultime settimane dall’Unione Europea e dalla Nato. Ma che, più realisticamente, a pochi mesi dalla tornata elettorale nazionale sa che il caso Enrica Lexie, se non gestito adeguatamente agli occhi dell’opinione pubblica indiana, potrebbe diventare un volano ad uso e consumo dell’opposizione nazionalista del Bharatiya Janata Party (Bjp); con Narendra Modi favorito per la prossima premiership, dal Bjp non aspettano che un segnale di accondiscendenza verso l’Italia per attaccare frontalmente l’«italiana» Sonia Gandhi, presidentessa del partito di governo Indian National Congress (Inc).

L’offensiva diplomatica a tutto campo, ha ribadito De Mistura, ha un obiettivo ben preciso: il ritorno in Italia di Latorre e Girone, bloccati all’interno dei confini indiani da due anni in attesa che i nodi riguardanti la giurisdizione del caso – inedito nel panorama del diritto internazionale – vengano sciolti una volta per tutte.

A questo proposito l’Italia, nella giornata di lunedì, ha avanzato nuovamente la richiesta ufficiale di arbitrato internazionale, ovvero far decidere a un gruppo di esperti – sotto l’egida dell’Onu o individuati di comune accordo tra le parti – chi tra Roma e Delhi abbia il diritto di giudicare l’operato dei due fucilieri. Una procedura che si prevede lunga e che, con ogni probabilità, vedrebbe l’opposizione della parte indiana, intenzionata a non internazionalizzare la vicenda.

Al fianco del pressing diplomatico, ieri mattina, durante la conferenza stampa di apertura del Festival di Sanremo, è andata in scena anche un’inaspettata offensiva mediatica. A pochi minuti dall’accensione die microfoni, riferisce l’ufficio stampa Rai dalla Città dei Fiori, il sindaco di Sanremo Maurizio Zoccarato (eletto grazie a un’alleanza Pdl-Lega) ha invitato sul palco «motu proprio» le compagne di Latorre e Girone, rispettivamente Paola Moschetti e Vania Ardito.

Denunciando l’«ingiustizia» subita dai compagni, Ardito e Moschetti davanti alle telecamere hanno postulato – senza il minimo contraddittorio – la presunta illegalità dell’arresto di Latorre e Girone da parte delle autorità indiane che, parafrasando Moschetti, sarebbe avvenuta in spregio al diritto internazionale. Un precedente che metterebbe a rischio l’incolumità di «tutti i militari in servizio».
In realtà le cose sono un po’ più complesse. I due marò a bordo di una petroliera privata erano militari in servizio su mezzi civili senza che lo stato di pertinenza delle acque (l’India ha una legge che estende la propria giurisdizione fino a 200 mn) né fosse mai stato messo al corrente né avesse firmato degli accordi con l’Italia che ne legittimassero le attività, con inevitabili ripercussioni sull’immunità funzionale. Materia da convegno di diritto internazionale, insomma, non certo da kermesse canora.