Samuel Richardson avrebbe potuto essere il protagonista più autorevole dello straordinario Settecento inglese se un altro Samuel, Samuel Johnson, non gli avesse rubato la scena con l’elegante sprezzatura dell’intellettuale borghese, abile conversatore – allora la conversazione era il punto di sutura tra oralità e scrittura –, temibile battutista, rissoso e perentorio giudice e riformatore degli usi e costumi dei suoi concittadini. Richardson era invece un tipografo-editore di successo, probabilmente autodidatta e low church, che sposò la figlia del proprietario della tipografia in cui era entrato come apprendista. Ebbe sei figli tutti morti da piccoli, e rimasto vedovo a quarantaquattro anni si risposò con la figlia di un altro tipografo, e soffrì nuovi lutti. Divenne primo tipografo ufficiale del Parlamento, pubblicò molta manualistica che vendeva sempre bene. In una lettera a una sua ammiratrice si descrive basso, di circa un metro e sessantacinque, grassoccio malgrado gli acciacchi dell’età, a passeggio ogni giorno nel parco, una mano al petto e l’altra sul bastone, e se si avvicina una dama, il suo occhio non si fissa mai sul viso, ma sui piedi. Ne giudica il contegno e, se di suo gusto, si volta per un’ altra occhiata definitiva. Nel ritratto che gi fece Joseph Highmore, ora alla National Gallery, un Richardson in posa ci fissa da lungi, benevolo e soddisfatto di sé, sentenzioso e accentratore.
Romanzo epistolare
Pamela, un romanzo epistolare, pubblicato nel 1740, lo aveva reso famoso anche all’estero, e l’amico Highmore ne aveva fatto il soggetto di dodici quadri, che divennero dodici stampe. La servetta puritana che abilmente mette in stato di accusa l’attentatore alla sua virtù, l’indolente Mr B, commosse le signore ma fu anche percepito come una minaccia, una provocatoria critica alla sacrosanta barriera di classe. E Richardson dovette correre ai ripari con un secondo e terzo volume in cui lei, convertita ai nuovi valori borghesi, è sposa ossequiente, ridicola al punto da meritarsi la canzonatura feroce di Fielding. In Italia Goldoni la mise in scena, ma nella versione riformata. Secondo Praz, Richardson seppe trovare il giusto mezzo tra sentimentalismo e casistica utilitaria, ma non gli riconobbe mai la misura neoclassica che lui preferiva, né lo trovò abbastanza torbido e imbarazzante – specialmente nel suo capolavoro, Clarissa – tanto da preannunciare il sadismo di fine secolo. In una conversazione radiofonica del 1959 Manganelli riconosce Pamela come il risultato di un nuovo ordine sociale e culturale di quella borghesia, meno colta, meno raffinata della aristocrazia cortigiana ed ecclesiastica del secolo precedente. Propone altri valori e «difende con tenacia, priva di fantasia: decoro, decenza, praticità, onestà, virtù; quest’ultima sfuma nella correttezza e nel culto del ‘giusto prezzo’ commerciale». Nel 1740, l’anno di Pamela, era stata aperta a Londra la prima biblioteca circolante, e soprattutto le donne ne divennero subito assidue frequentatrici.
Masolino d’Amico è il maggiore esperto italiano di Richardson. A lui si deve la traduzione di Pamela nel 2016, una prima traduzione di Clarissa nel 1996, il capolavoro monstre per lunghezza e lentezza che pochi lettori moderni hanno affrontato, e la nuovissima definitiva traduzione pubblicata ora da Aragno in quattro eleganti volumi, introduzione e bibliografia (pp. 2809, € 120,00). Richardson vi lavorò per anni, dopo aver scritto la prima versione dal dicembre 1747 – sette anni dopo Pamela – al dicembre ’48. In un delizioso libretto, Lo scrittore inglese (Skira, pp. 98, € 13,00), anche questo a firma d’Amico, tratto dall’epistolario dell’ormai famoso tipografo con lady Bradshaigh, sua ammiratrice e pessima consigliera, troviamo quella valutazione finale che invece è sfumata nella introduzione al romanzo: «Clarissa fu uno sforzo grandioso, il libro di una vita, sotto questo aspetto da accostarsi a Ulisse o alla Recherche. Qui Richardson volle mettere definitivamente le cose in chiaro. E cioè, primo, ribadire il suo concetto della dignità della donna; e secondo, mostrare i propri titoli di scrittore, mediante uno sfoggio di virtuosismo stilistico e architettonico che nel nuovo genere non aveva precedenti».
Il tema della vergine perseguitata era frequente nel teatro dell’epoca, e così la figura dell’aristocratico libertino corruttore dell’innocente fanciulla, sempre di classe inferiore. Ma la ricca Clarissa proviene dall’ambiziosa borghesia, e benché ferita mortalmente nel corpo e nell’anima, rifiuta il matrimonio riparatore. Una stenografica allusione alla lotta di classe che non sarà molto lontana? La protestante Clarissa contiene nel nome la promessa di una luce spirituale come la cattolica Lucia di Manzoni: il loro destino è segnato dall’archetipo di santa Lucia che rifiuta il corteggiatore pagano e paga con la morte la sua fermezza morale. A differenza di Lucia Mondella, la cui verginità è difesa da un misterioso intervento della Provvidenza, Clarissa Harlowe, intelligente e imperterrita, si apparecchia a una morte gloriosa con tanto di bara disegnata da lei, pronta in camera da letto. Coglie la sua corona di santa, trascinando con sé l’anima e il corpo del povero Lovelace – il «senz’amore» o non invece «al laccio di amore»? Nel suo testamento Clarissa ha minutamente elencato i suoi lasciti a vari amici e parenti – la biblioteca va a una donna – e ha disposto che il cadavere sia esposto anche alla vista del suo persecutore, se questo può servire a indurlo al pentimento. Nella lettera 497, indirizzata all’amico e complice John Bedford, Lovelace gli ordina di eseguire il suo progetto: impossessarsi del corpo di colei che ora chiama «mia moglie», farlo imbalsamare, estrarre il cuore e metterlo sotto spirito. Come prima cosa vuole immediatamente una ciocca dei suoi capelli. «Prenderò possesso del suo cuore questa notte stessa; e che Tomkins provveda un recipiente adeguato e l’alcol, finché io non ne abbia fatto fare uno d’oro».
Il delirio di Lovelace
Nel 1992 Elisabeth Bronfen nel suo Over her dead body: Death, femininity and the aesthetic (Manchester University Press) ha buon gioco a commentare il delirio di Lovelace: «Morta, lei non può più sfuggirgli, tuttavia il suo cadavere conservato, specie se ridotto a un cuore imbalsamato, vieta ogni diretto contatto carnale … Le sue fantasie amorose mostrano che il feticismo può servire come strategia per occultare al tempo stesso la morte e la sessualità femminile, ancora una volta segnalando quanto questi due significanti siano vicini». La stessa Clarissa, permettendo che la sua salma sia esposta allo sguardo di Lovelace, acconsente alla fine a una eterna e inalterabile relazione tra l’amante e lei, oggetto ormai perduto, ma perennemente desiderato. Richardson, energico, coscienzioso, sicuro di sé resistette a quell’intrigante Lady Bradshaigh – il suo «caro fuoco fatuo» –, che lo implorava di concedere un matrimonio riparatore ai due infelici amanti, mentre in realtà anche lei giocava a eludere il richiesto incontro, la soddisfazione dello sguardo a cui il grande tipografo tanto teneva … Dopo un anno e sette mesi di scambio epistolare, finalmente Lady Bradshaigh acconsentì a incontrare Richardson ad Hyde Park, nel marzo 1750. «Ancora un paio di generazioni dopo, in Russia Puškin lo chiamò sublime».