Le pagine di Richard Yates non condividono con quelle di altri grandi scrittori americani il mistero che si nasconde, a volte, nei risvolti delle vite qualunque; né risale a noi dalle sue trame il fascino di quella nebbiolina di noia che pervade tante esistenze consegnate a un destino del quale non si è tentato il riscatto: quelle dei protagonisti di Yates spesso non sono vite ordinarie, e tuttavia si assestano drammaticamente sulla soglia di quel non.

Di certo non sono senza promesse le parabole che si direbbero ascendenti di Michael Davenport e Lucy Blaine, i protagonisti di Il vento selvaggio che passa (traduzione di Andreina Lombardi Bom, minimum fax, pp. 508, € 19,00) i quali si incontrano a metà degli anni Cinquanta, quando lui è a Harvard – dove si aspetta di «imparare a far sembrare facile quello che è difficile» – e lei è al Radcliffe, dove fra una lezione e l’altra si trova assegnata al ruolo di protagonista nel primo atto unico «passabile» scritto da Michael, di lì a poco suo marito.

Alle spalle la guerra
Entrambi coltivano non poche ambizioni: precoci, esplicite, irrinunciabili, immancabilmente frustrate quelle di lui, che verrà ricordato quanto meno dagli amici per una sola, insuperata poesia, perfidamente titolata da Yates «Vuotare il sacco»; inibite e dunque tardive quelle di lei, che una volta sposata si accontenta di votarsi alla bohème di provincia, rinunciando a usufruire del suo favoloso patrimonio personale.

Per qualche anno tirano la cinghia a New York, dove Michael impegna la sua mano destra nella faticosa scrittura di qualche poesia, e la mano sinistra nella redazione di una rivista patinata, che promuove il commercio al dettaglio; se non altro, in quelle stanze incontra il futuro amico Bill, proveniente dalla prestigiosa Amherst, e ora dedito alla stesura di quello che definisce «un romanzo operaio». Gli amici si frequentano, Bill porta a casa dei Davenport la sua fidanzata Diana, della quale Michael si innamorerà all’istante, poi lei li introduce allo studio del fratello Paul Maitland, talentuoso pittore indifferente alle lusinghe del mercato, che per mantenersi fa il carpentiere, e in guerra era stato fuciliere nella controffensiva delle Ardenne.

Il repertorio delle fragilità

Sul fronte occidentale aveva combattuto anche Yates, che fra i vari dettagli autobiografici proiettati sui suoi personaggi introduce anche una loro partecipazione alla guerra: qui arruola Michael alla aeronautica – «ogni volta che aveva preso parte ai combattimenti ci era mancato poco che morisse di paura» – mentre sulle Ardenne aveva già mandato, vent’anni prima, il protagonista di Sotto una buona stella, Robert J. Prentice, anche lui combattente diciottenne in fanteria.

All’epoca di questo suo penultimo romanzo, datato 1984, il cui titolo originale, Young Hearts Crying è tratto dal primo verso di una delle poesie triestine di Joyce (mentre quello italiano, No more will the wild wind that passes pesca da un altro verso della stessa poesia) Yates si era forse un po’ allontanato dalle impellenze autobiografiche che aveva seminato in tutti i suoi romanzi precedenti; quanto meno dalla figura materna, qui assente ma che incombe su altri romanzi, e soprattutto in Easter Parade, dove le variazioni del suo carattere si distribuivano su ben tre personaggi. Del repertorio di Yates tornano, tuttavia in Il vento selvaggio, le consuete ubriacature, le scenate, le rotture di equilibri sentimentali più volte ritentati, e tutto l’inventario delle umane fragilità si ripropone come l’esito della frustrazione seguita a un successo mancato.

L’epoca in cui Yates ambienta i suoi libri sarebbe passata alla storia come l’età dell’ansia: aveva alle spalle la Grande depressione prima, poi la guerra, vissuta alternatamente come movente di tedio e occasione di riscatto dall’insignificanza. Sul finire di questo suo penultimo romanzo, i protagonisti invecchiano avendo semmai arretrato rispetto alla loro posizione di partenza: in uno dei bei dialoghi tra Michael e Paul Maitland, i due amici si ritrovano a condividere il ruolo di insegnanti in università di provincia, un lavoro al quale avevano giurato in gioventù di non volersi rassegnare; l’uno non ha mai più scritto qualcosa di notevole, l’altro non ha visto riconosciuto il suo talento, che peraltro si è rifiutato di affidare alle quotazioni del mercato. Ma mentre Paul sembra avere maturato i suoi giudizi portandoli a più realistiche considerazioni, Michael si è attardato nel suo risentimento, e dopo che Lucy lo ha lasciato i suoi nervi hanno più volte ceduto, scoraggiando via via le non poche donne facilmente conquistate.

Voci femminili critiche
Successo e stima non si posano mai a un tempo sulla stessa persona: Maitland è considerato un bravo pittore ma non vende, Tom Nelson invece, l’altro amico di Michael, espone in tutte le principali gallerie americane ma i suoi dipinti rivelano in lui niente altro che un illustratore. Più che una fedeltà al cliché, questa scissione rivela l’ennesima identificazione proiettiva di Yates nei suoi personaggi, se è vero che – come scrive Kurt Vonnegut in un testo opportunamente preposto a Il vento selvaggio – egli era «consapevole della futilità del suo talento». Non a caso, come l’editore Seymour Lawrence ricorda in un altro omaggio introduttivo al volume, l’autore dell’ineguagliato Revolutionary Road non vendette «mai più di diecimila copie in prima edizione».

Per quanto severo con i suoi personaggi più o meno come con se stesso, Yates regala tuttavia alle voci femminili qualche grazia supplementare, e persino bagliori di consapevolezza che si direbbero generati da una esperienza della vita tradotta in intelligenza. Dopo avere abbandonato Michael, Lucy insegue – è vero – tutte le velleità alla portata della moda: fra una seduta e l’altra dal suo psicoanalista, si iscrive a un corso di creative writing, e si innamora del suo insegnante, non prima di essersi sentita dire da un tecnico degli ascensori, anche lui partecipante al corso, che il suo racconto basato «sulla distinzione tra persone forti e persone deboli, a un esame attento finisce per andare in pezzi…». Poi recita nella compagnia teatrale di un regista approdato nella cittadina dove si è spostata con la figlia avuta da Michael, e anche di lui si invaghisce, consentendogli di maltrattare le sue performances recitative. E finalmente crede di trovare l’uomo giusto in un ricchissimo speculatore finanziario che, non a caso, è anche collezionista del molto venduto e poco stimato amico di un tempo, il pittore Tom Nelson.

Ma quando Michael tornerà dopo molti anni a trovarla, vincendo l’estraneità che si è interposta tra loro, lei commenterà l’arredamento stravagante della sua casa con una consapevolezza di sé che l’ex marito non è in grado nemmeno di comprendere: «Mah, adesso me ne sono un po’ stancata, ma nei primi tempi che vivevo qui mi sembrava un’idea interessante: fare in modo che tutto stonasse di proposito. Non era per far pensare che fossi un’eccentrica, sai, né che fossi un’anticonformista. Volevo essere più una parodia di entrambe le possibilità».

Anche la seconda moglie di Michael, peraltro, la giovanissima Sarah che meglio di lui sarà in grado di fronteggiare la crisi adolescenziale della figlia avuta con Lucy, gli si rivolge con arguzia: «Ti lasci sopraffare dalla tua stessa retorica finché non sai più nemmeno cosa stai dicendo».

Ambizioni artistiche
Se nella considerazione di Yates i personaggi maschili segnano il passo, quelli femminili sembrano dunque guadagnare uno sguardo autocritico verso le stesse aspirazioni che, quindici anni prima, avevano determinato l’«odissea isterica» di Alice Prentice in Sotto una buona stella. Allora come ora, era bastato che un Nelson qualunque si rivolgesse alla protagonista con una frase come: «Ho saputo che lei è un’artista» per tradurre la contingente gratificazione in una promessa di amore. Ma Yates è ora, a otto anni dal termine di una esistenza già molto gravata dai vizi proiettati nei suoi protagonisti, un po’ meno in preda a quei condizionali controfattuali che spesso si accompagnano a una vitasatura di rimpianti.