«La televisione non può essere spontanea se non lo è la vita, e la vita non lo è»: suona così la filosofia di Sydney Pomeroy, in arte Golk, il produttore e attore televisivo al centro dell’omonimo romanzo dello scrittore newyorkese Richard Stern (riproposto da Jaca Book nella traduzione di Vincenzo Mantovani, pp. 220, euro 15,00).

Rileggendolo viene spontaneo tornare a verificare la data della prima pubblicazione, tanto sembra impossibile che un romanzo così attuale risalga al 1960. Le teorie di Golk suonano, infatti, anacronisticamente familiari nell’era dei social network, quando i dibattiti sulle sistematiche violazioni della privacy e sulla legittimità di una sorveglianza sempre più capillare in nome di una presunta sicurezza sono all’ordine del giorno.

Gli show, o «golk», televisivi nascono come innocue candid camera, ma nella mente del loro visionario ideatore assumono lo status di opere d’arte. Così come vengono teorizzati nel romanzo, i «quattro stadi del golk» anticipano l’evoluzione di quell’intrattenimento televisivo che punta sulla comicità provocata dalle reazioni spontanee di vittime inconsapevoli, reazioni che secondo Golk «riveleranno drammaticamente quelle persone, con l’artificioso che fa appello al reale per produrre il dramma». Tuttavia l’intuizione geniale di Stern è aver previsto la paradossale aspirazione delle vittime dei golk ad apparire in televisione nonostante (o forse proprio per) le loro reazioni scomposte, ridicole, esagerate: «Se voglio che lo mettano in onda? – afferma l’anziana vittima di un golk – Certo che voglio. Un privato cittadino che, a un tratto, per un capriccio degli dei, dispone di un immenso uditorio come un uomo famoso». Da qui al contemporaneo homo televisivus, agli entusiasti concorrenti del Grande Fratello, agli avidi «condivisori» di selfie su Facebook, il passo è davvero breve.

Ma Stern va addirittura oltre, prefigurando il successo popolare dei reportage satirici che uniscono la comicità alla denuncia sociale: filmando di nascosto politici e uomini d’affari durante occasioni informali, nello stadio finale del suo show Golk mira infatti a smascherare corruzione, ipocrisie e abusi davanti agli occhi della nazione; ai collaboratori preoccupati di eventuali ripercussioni spiega che non sono necessarie liberatorie, poiché si tratta di «una specie di telegiornale. Quando riprendi un sottomarino che affonda non devi mica chiedergli il permesso di fotografarlo». Non c’è da stupirsi che il network la pensi diversamente.

Per costruire il suo personaggio, Stern si è ispirato a Allen Funt, ideatore e primo conduttore di Candid Camera. Tuttavia con la sua enorme testa calva simile a un pianeta, un’abilità quasi magica nel travestimento e uno smisurato quanto inspiegabile carisma, Golk è soprattutto un archetipo nazionale: la «cupola sospesa» della sua testa racchiude e rappresenta l’America – ai suoi collaboratori appare come «Golk la nazione, Golk la bandiera, Golk la capitale». La sua figura di trickster attraversa la letteratura nel corso dei secoli: è il truffatore trasformista e satanico dell’Uomo di fiducia di Melville; è il vanaglorioso «Testa di Morto» Mussolini descritto da Gadda in Eros e Priapo, ma è anche un progenitore del titanico e violento giudice Holden di Meridiano di sangue di McCarthy.
E, soprattutto, Golk è una anticipazione del Marlon Brando/Kurtz di Apocalypse Now, che alla fine del romanzo sparirà nel cuore di tenebra del quilt statunitense; di lui non rimarranno che sparute e controverse tracce: cartoline incomprensibili inviate da luoghi sempre diversi, apparizioni televisive mai pienamente confermate, e una sillaba, golk, che in inglese significa «gonzo» o «buffone», ma la cui assonanza con god (dio) e gawk (fissare con sguardo inebetito, come davanti alla tv) lascia presagire evoluzioni sempre più inquietanti.