C’è stato un tempo, nella storia del rock, dove la «musica del diavolo» era tutt’altro che testosterone ed elettricità pura. Per la gioia di chi cercava piaceri più intellettuali, per la dannazione di chi così vedeva svanire un sogno di sensuale fisicità. Tant’è che il punk rock provò a dare una bella spallata a quelle note. Il cantore del rock più intellettuale, raffinato e meno fisico che si conosca, massimo fulgore all’incirca a metà degli anni Settanta, è Jonathan Coe, che in almeno un paio dei suoi folgoranti romanzi ha fatto riferimento alla stagione del rock progressivo in salsa Canterbury. Se provate a chiedere a un appassionato signore di mezza età quali figure meglio riassumano l’estetica del rock di Canterbury, tutto sperimentazione e melodie languorose che sembrano incepparsi e incespicare da tutte le parti, su un accidentato terreno ritmico, vi sentirete rispondere: Robert Wyatt e Richard Sinclair.

Il primo non fa più tour, per seri problemi di salute, una sedia a rotelle di troppo, una spiccata attitudine al giardinaggio. Il secondo, Richard Sinclair, prosegue imperterrito a diffondere il verbo di un rock fatto di finezze patafisiche e autoironia, gentilezza e lampi di regolata follia molto British. E molto British lo è anche nell’aspetto, Sinclair: un signore più vicino ai settanta che ai sessanta con il cranio lucido, gli occhialini, la figura dinoccolata e asciutta. Più un docente di storia in pensione che un rocker. A Genova, nell’edizione del ventennale del Festival internazionale della Poesia l’organizzatore Claudio Pozzani lo ha voluto per una rara esibizione in «solo totale», e lui ha accettato con entusiasmo e ironia.

Presentandosi sul palco con un mirabolante aggeggio a doppio manico sia basso sia chitarra, e una pedaliera in grado di trasformare il suono delle corde in misteriose note vocalizzate, a doppiare la voce angelica e nasale assieme del leader. Richard Sinclair ha militato nei Wild Flowers, nei Caravan, in Hathfield & The North, nei Camel: petali preziosi di una rosa che, tutta assieme, fa il bizzarro e dolcissimo rock di Canterbury, la «terra del grigio e del rosa» di un celeberrimo disco dei Caravan, così vicina a quella al di là delle specchio di Alice di Carrolll. Oggi Sinclair è un bonario, elegante signore che non si è scomposto né alterato neppure quando, proprio all’inizio è crollato dalla sedia malmessa, e capitombolato per terra, lui e strumento. E neppure si è lasciato infastidire da problemi tecnici rompicapo. Si è rialzato con un sorriso, ha scelto di proseguire in piedi, e via con quei brani della storia che sembrano canzoncine svaporate, e nascondono in realtà progressioni jazzistiche di accordi spaccamani, e salti di registro vocali da freeclimber delle corde vocali.

Ad esempio It didn’t matter anyway, pregiata ditta Hatfield & The North, che è un’onda gonfia di malinconia nascosta in un sorriso, o la citata In the Land of grey and Pink: Sinclair si diverte a infilarci versacci e versetti, rumori strani, simulazioni di una percussione che non c’è.

Molto, molto raffinato. Si viene a sapere anche che, delle mille versioni rimasterizzate dei suoi dischi storici lui non hai mai visto una sterlina o un euro di diritti. E così adesso s’è inventato un’altra vita, molto British, anche qui: casa in Puglia da otto anni con la moglie, sette cani, venti gatti.

E la nascita di un Richard Sinclair Club che raccoglierà donazioni dal basso. E spunti, perfino idee per i testi prossimi. Con 50 Euro di donazione si diventa produttori di due cd del tranquillo e geniale signore di Canterbury, con nome in copertina, alla fine dell’anno in consegna. Lui spiega, con il suo raffinatissimo accento albionico per nulla turbato dalle crudezze pugliesi, che bastano 50 persone. Scrivere a: richard.sinclair@alice.it. Ed al diavolo le multinazionali del disco, aggiunge con un sorriso questa volta un po’ meno accomodante.