Personalità cosmopolita, raffinata e colta, Richard Rogers, scomparso sabato scorso all’età di ottantotto anni, è stato l’interprete della migliore architettura british della tarda modernità. Nato a Firenze nel 1933 da padre medico inglese e madre triestina proveniente dalla facoltosa famiglia Geiringer, lasciò l’Italia all’età di sei anni per Londra per studiare all’Architectural Association e alla Yale University di New Haven.

CHE COSA FOSSE l’architettura per Rogers lo spiegò lui stesso nel 2013 quando la londinese Royal Academy of Arts allestì una mostra in suo onore: «Un posto per tutte le persone, il giovane e il vecchio, il povero e il ricco, tutte le fedi e le nazionalità. Un incrocio tra Times Square a New York e il British Museum di Londra».
Le due metropoli, negli States e nel Regno Unito, sono state, infatti, i poli prediletti del suo studio associato: dal 1977 Richard Rogers Partnership, poi dal 2007 Rogers Stirk Harbour+Partners, all’inizio della sua carriera, però, insieme a Renzo Piano e sua moglie Susanne, Piano&Rogers. Fu dal sodalizio con l’amico genovese che ottenne, com’è noto, l’imprevedibile successo del Centre Georges Pompidou (1971 -77): l’«orribile intruso» divenuto un’icona della modernità, frutto dell’esito del concorso vinto con Gianfranco Franchini e gli ingegneri Ted Happold e Peter Rice, e che valse a lui e agli altri la visibilità internazionale.
A New York City Rogers ottenne l’incarico nel 2006 per la Torre 3 del nuovo World Trade Center (2006), in sostituzione di ciò che andò distrutto con l’attentato dell’11 settembre. A Londra, dove visse e stabilì il suo headquarter, è stato l’architetto protagonista delle celebrazioni per l’ingresso nel nuovo millennio con lo stadio in tensostruttura Millennium Dome (completato nel 1999 e oggi rinominato The O2), che sollevò molte critiche per i suoi costi eccessivi, come altrettanto aveva avuto, più di un decennio prima, la sede dei Lloyd’s (1979-86), che comunque insieme al Beaubourg, è ciò che rese celebre Rogers al mondo.
Prerogativa della sua concezione dell’architettura e della città, di là delle sue scelte linguistiche orientate verso l’high-tech pur non rivolgendo mai un particolare interesse ai temi formali o stilistici, è stata la presenza della dimensione «umanistica» che sul piano teorico e dei programmi lo distinse da altri architetti della scena inglese contemporanea, associati come lui, al rigorismo strutturalista e tecnologico: ad esempio, il suo ex-partner nel Team 4 (1963-67), Norman Foster.

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SARÀ CON QUEST’ULTIMO e con James Stirling nel 1986 che presenterà una serie di progetti sul futuro della città di Londra alla Royal Academy of Arts, nell’esposizione dal titolo London As It Could Be, dove la sua humanist city assunse contenuti e forma, pur non trovando alcun seguito né tra gli amministratori pubblici né tra le società del real estate: quest’ultime rivolte nei decenni successivi, a preferire altre soluzioni da quelle da lui formulate per l’accumulazione di capitale.
Nel 1997 da quel suo ragionare Rogers pubblicherà due agili saggi illustrati (Cities for a small planet, con Philip Gumuchdjian; Cities for a small country, con Anne Power, Faber and Faber) nei quali affrontò i temi della mobilità e del cambiamento climatico, del malessere e dell’inclusione sociale, del riuso e della densità abitativa. Insomma, espresse le sue idee sulle questioni della crescita urbana e della sua sostenibilità, proponendo soluzioni pronte per essere attuate dopo essere state condivise con i cittadini.
Proprio in apertura del nuovo millennio immaginava Londra potesse diventare «una città colta, equilibrata e sostenibile», consapevole, però, che stava ai londinesi chiedere a un «organismo strategico eletto» di esprimere tutto il suo potenziale. Fece propria la massima di Alexis de Tocqueville: «Senza potere e indipendenza le città possono contenere buoni sudditi, ma non possono avere cittadini attivi».
In questo impegno attivo dell’architetto che si rivolge alle antinomie della realtà urbana per risolverle e non solo documentarle con dati e notizie com’è oggi corrente, risiedeva il carattere di Rogers ancorato alla tradizione del moderno nel suo duplice aspetto di realismo e utopia.

IL REALISMO GLI PROVENIVA dalla conoscenza degli eredi della tradizione del Movimento Moderno e dei protagonisti dell’«altra modernità» conosciuti nel suo periodo di studi a Yale: Serge Chermayeff, Paul Rudolph, ma soprattutto Louis Kahn da lui considerato «il primo grande architetto del dopoguerra». La Zivilisation della società americana rappresentava ai suoi occhi il futuro e New York l’«Atene del XX secolo»; le architetture di Wright, poi, fonte d’ispirazione per sviluppare un linguaggio fondato sulla «luce, paesaggio e movimento».
Affascinato dalla tecnologia, ne era però anche preoccupato per le sue applicazioni errate che impedivano il far «progredire la giustizia sociale». Come disse alle Reith Lectures della Bbc nel 1995, la sfida era rompere «con un sistema che considera la tecnologia e la finanza come strumenti di profitto a breve termine», e come Marx vedeva a tratti «tutto ciò che è solido diventare aria».
Tuttavia lo sosteneva una buona dose di ottimismo poiché credette sempre che una «nuova cultura ambientale», anche nutrita delle suggestive utopie urbane di Cendric Price o di Buckminster Fuller, potesse trasformare le città in qualcosa di più equilibrato con un’architettura di «lunga durata, ampia flessibilità, a basso consumo energetico».