Chris Kyle, il cecchino più letale delle forze speciali americane in Iraq, Sully Sullenberger, il pilota della US Airlines che atterrò sull’Hudson salvando dal disastro un aereo carico di civili, Spencer Stone, Anthony Sadler e Alex Skarlatos, i tre amici d’infanzia del Midwest che sventarono l’attentato terroristico su un treno europeo; Earl Stone, l’orticultore e veterano della Corea diventato efficacissimo corriere della droga… Dai silenziosi cavalieri senza nome dei suoi primi film, stilizzati al punto da sembrare fantasmi, e dalla qualità mitico/granitica dell’ispettore Callahan o del Walt Kowalski di Gran Torino, negli anni, l’opera di Clint Eastwood si è mossa con crescente attenzione verso personaggi nascosti nelle pieghe della realtà.

Dopo essersi misurato con la Storia, in Edgar J. Hoover e Invictus – con American Sniper, Sully, Ore 15:17 – Attacco al treno (dove ha scritturò i tre ragazzi stessi) e The Mule – il suo occhio si è infatti più felicemente assestato su una galleria di «eroi qualunque». Spesso – riflesso coerente con l’antipatia per l’autorità e lo spirito libertario che da sempre anima la carriera dell’attore/regista – marginalizzati se non addirittura puniti dalle circostanze che li circondano.

RICHARD JEWELL, il protagonista del suo (omonimo) ultimo film è decisamente della stessa pasta. Ispirato dall’articolo di Marie Brenner per «Vanity Fair» American Nightmare: The Ballad of Richard Jewell, e dal libro di Kent Alexander e Kevin Salwen, The Suspect, il film è la storia della guardia giurata che scoprì uno zaino bomba in un frequentatissimo parco di Atlanta, durante le Olimpiadi del 1996, contribuendo a salvare centinaia di persone, per poi venire (ingiustamente) accusato di essere il responsabile dell’attentato.

Grasso, timidissimo, ossessionato dal sogno di appartenere alle forze dell’ordine (tratto che gioca con dolce ironia con il i ruoli storici del regista), Richard Jewell (Paul Walter Hauser) inizia il film in un ufficio della Small Business Administration della Georgia. Il suo compito quello di rifornire ogni scrivania di cancelleria. Come spesso succede a individui «invisibili» come lui, Richard – che si aggira per i corridoi con un carrello pieno di matite e scotch- è dotato di un grande spirito di osservazione, che traduce in piccole attenzioni agli impiegati che a loro volta – nonostante la sua mole, altra ironia- a malapena si accorgono di lui, quando non ridono alle sue spalle. Nota con riluttanza queste carinerie l’avvocato Watson Bryant (Sam Rocchella, in un’interpretazione sfumatissima).

Ed è un bene, perché Richard avrà presto bisogno di lui. Licenziato dalla security dell’Università per l’eccesso di zelo con cui gestiva le trasgressioni degli studenti, Richard trova un posto in quella dell’AT&T, e tra le file delle guardie giurate che sorvegliano l’Olympic Centennial Park di Atlanta. Anche lì, la sua frenetica vocazione di sceriffo lo rende un po’ ridicolo, e vittima dello scherno di un gruppo di teen ager. Ma è grazie a quella cocciuta ostinazione che la polizia prende finalmente sul serio uno zaino abbandonato, che si rivela pieno di bombe.

Avvenuta mentre la folla sta già evacuando, l’esplosione provoca due morti e un centinaio di feriti. Eastwood filma la caotica scena con precisione semplicissima, senza grandi gesti. Ma senza Richard, sarebbe stata un massacro: è l’eroe del giorno, catapultato in prima pagina e in prima serata, sui media nazionali, con enorme orgoglio della madre (Kathy Bates) insieme a cui vive. Il suo momento di gloria dura però una frazione di secondo, polverizzato dallo scoop del quotidiano locale, l’«Atlanta Journal-Constitution»: secondo fonti dell’Fbi, il sospetto numero uno dell’attentato è Richard Jewell stesso.

DALL’ESALTAZIONE celebrativa, il circo mediatico passa direttamente al linciaggio. E tra i momenti più belli e delicati di questa «passione di un americano qualsiasi» sono le scene con l’avvocato o con la madre in cui Richard cerca a suo modo prima di capire e poi di rispondere all’ingiustizia. Appostati come avvoltoi urlanti vicino a casa sua, i giornalisti -insieme all’Fbi, incarnata dalla glaciale, distante, interpretazione di Jon Hamm, l’agente che conduce le indagini – sono i cattivi del film di Eastwood. Superficiali, spietati, smaniosi di abbracciare ogni cliché.

In prima fila Kathy Scruggs (Olivia Wilde, nella realtà figlia di due famosi giornalisti investigativi, Leslie e Andrew Cockburn) la responsabile dello scoop, che si pentirà solo troppo tardi dell’errore che ha fatto. Intorno al suo ritratto -di una reporter senza scrupoli che non esita a sedurre l’agente Fbi o ad appostarsi nell’auto dell’avvocato per assicurarsi un’esclusiva – è scoppiata una guerra tra la Warner Bros, che ha prodotto Richard Jewell, e l’«Atlanta Journal-Constitution» che ha accusato il film di diffamare la sua giornalista. Ironicamente, come Richard Jewell (morto nel 2007, dopo essere stato ampiamente scagionato) Kathy Scruggs è mancata qualche anno fa. Quindi non può rispondere.