Non sappiamo quanti anni abbia, da dove venga, quale sia la sua storia. Sappiamo però che George è un homeless, per le strade di New York. I dettagli della sua giornata, del suo sguardo, l’oscillare terrorizzante tra stati di coscienza e non, mentre il mondo intorno a lui si svolge, indifferente alla sua esistenza.
Il film è Time Out of Mind, una stretta collaborazione tra il regista/sceneggiaore Oren Moverman (regista di The Messenger e sceneggiatore di Io non sono qui di Todd Haynes) e l’attore Richard Gere. Dopo lo abbiamo visto al New York Film Festival ed è previsto tra qualche settimana anche al Festival di Roma. Dopo la proiezione, attore a regista hanno incontrato i giornalisti.

(Richard Gere): «Tutto inizia da una sceneggiatura che mi hanno mandato circa dieci anni fa. La storia era ambientata negli anni ottanta. Era interessante e riguardava un soggetto che mi sta molto a cuore, perché ho collaborato a lungo alle attività della Coalition for the homeless. Era un copione che non riuscivo a togliermi dalla testa. Avevo una vaga idea di cosa volevo farne, quando ho incontrato Oren a un cocktail per nuovi membri dell’Academy. Gliene ho parlato e lui mi ha chiesto di mandarglielo. Leggendolo, Oren ha immediatamente suggerito delle idee che avrebbero risolto i problemi a cui io non avevo trovato soluzione. C’è anche un libro che è stato importante, l’autobiografia di un homeless, Cadillac Man (Land of the Lost Souls: My Life on the Street, ndr). È il libro di una persona che non ha studiato, ma che comunica il suo mondo con grande profondità, poesia e senza autocommiserazione. Molto asciutto. Volevo che il film fosse così. Oren ed io abbiamo cominciato a affrontarlo da quel punto di vista, a parlare di neorealismo… Eravamo sulla stessa lunghezza d’onda quindi da lì in poi è stato facile».

(Oren Moverman): «Volevamo cercare di catturare la dimensione ordinaria, non eccezionale, di questo personaggio. Abbiamo visitato insieme molti ospizi per senza tetto. Erano posti in cui Richard era stato parecchie volte nel corso degli anni e quindi aveva anche la prospettiva di come erano cambiati nel tempo».

(RG): «Da quei nostri sopralluoghi Oren traeva situazioni, stralci di dialogo che adesso sono nel film. In effetti, quello che non avevo anticipato, quando ho ricevuto la sua prima stesura dello script, era la sua sensibilità incredibile per il process, i semplici dettagli del quotidiano di un homeless, i passi da affrontare per arrivare alla fine di ogni giorno. Quel process è diventato il nostro film. Non avevamo bisogno di trama ulteriore. La vita stessa, senza drammatizzazione, ci sarebbe bastata. Oren ha una sensibilità nei confronti del tempo molto bizzarra. Non si fa mettere fretta. Io invece ho sempre in mente l’idea di una storia che deve svilupparsi e finire nell’arco di due ore. Lui mi ha insegnato a non avere fretta. Ricordo la scena in cui stavo raccogliendo le mie cose sparse dopo che mi avevano buttato fuori da un edificio: credevo fosse un’azione noiosa quindi cercavo di sbrigarmi. Tranquillo, non c’è fretta mi ha detto Oren. E lì ho capito che dovevo abbandonare il mio senso del tempo e che il film sarebbe esistito in un tempo suo, che è poi quello del personaggio. Non a caso si intitola Time Out of Mind, il tempo fuori dalla mente».

(OM): «Effettivamente, volevamo registrare una serie di momenti ordinari, privi di sentimentalismo. Usando dei teleobbiettivi molto potenti che ci permettevano di piazzare la macchina a grande distanza dal personaggio, abbiamo spesso girato le scene attraverso finestre, vetrine di negozi, inferriate, dai tetti della città….. C’era sempre qualcosa tra l’obbiettivo e Richard. Perché volevano che fosse un film veramente newyorkese, dentro alla città. Ma volevamo fare anche in modo che quei filtri, quell’idea di guardare il personaggio «da fuori», creassero una distanza da cui poter sviluppare una prospettiva e, idealmente, della compassione. Creavamo delle situazioni molto semplici. In questo film non ci sono cattivi. È un film sul guardare e l’ascoltare New York. Io e il mio operatore, Bobby Bukowski, siamo stati molto influenzati dalle fotografie di Saul Leiter. Sono immagini della città in cui spesso non sai nemmeno cosa stai guardando. Abbiamo quindi deciso che volevamo una fotografia molto immobile e che avremmo usato lo zoom, uno dei miei obbiettivi preferiti, per cercare Richard in queste istantanee di città che gli si muoveva attorno. L’idea di Time out of mind sta in due parole, «prospettiva» e «compassione». Non cercavamo delle risposte. Raccontavamo una storia e cercavamo di stabilire una relazione tra ciascuno di noi e questo personaggio che sta attraversando una città in cui nessuno lo nota. La cosa sconcertante, extra filmicamente parlando, è che questo «uomo invisibile» era Richard Gere….»

(RG): «In quanto produttore del film, sapevo fin dall’inizio che non avremo mai potuto risparmiare sul suono. Perché essenzialmente stavamo facendo un film muto. Nella testa del personaggio non ci sono parole, c’è spazio. E l’unica cosa che penetra quello spazio è il suono. Le strade di New York sono una cacofonia di rumori di storie, molto stratificati. Quella complessità era parte del design del film».

(OM):«Volevamo lasciare dentro tutto quello che chi generalmente gira a NY elimina. Il nostro doveva essere un suono sporco. Il suono di una città di gente occupata, a vivere la propria vita senza riconoscere i drammi che avvengno dietro l’angolo. È un fatto, non un atto d’accusa. Fino a che non ho dovuto riprenderli, non mi sono mai accorto neanch’io che dietro l’angolo di Bellevue, c’è una fila di uomini, donne e bambini che stanno entrando nell’ospizio. Perché questo è un film che chiede allo spettatore di guardare una cosa che istintivamente non vuole vedere».

(RG): «La sceneggiatura originale è stata scritta prima che una legge stabilisse alcune garanzie fondamentali per i diritti degli homeless: un letto vero, pasti a ore precise e di una certa qualità. Basta con gli ospizi enormi nelle armerie gelate. È stata una riforme rivoluzionaria, a suo tempo. Ma il film è sostanzialmente un’esperienza interiore, e in quel senso, tra gli anni ottanta e oggi le cose non sono cambiate molto. Non è cambiata la sensazione di essere homeless, quanto in fretta, in quella situazione, ci si trova a scendere in zone veramente spaventose della propria coscienza. È un buco nero in cui sei risucchiato. Per me personalmente è stata un’esperienza interessantissima. Il primo giorno che abbiamo fato un test, per vedere se potevamo veramente girare il film come avevamo immaginato, abbiamo piazzato la cinepresa dentro a uno Starbucks mentre io ero fuori, in piedi in mezzo a Cooper Square. All’inizio, mi faceva una certa impressione essere così scoperto, in mezzo alla strada. Invece, nessuno mi ha notato, mi ha visto. Siamo rimasti lì 45 minuti…Anche quando ho iniziato ad avvicinarmi alle persone – puoi aiutarmi? Hai qualche spicciolo? Nessuno mi ha notato. E chi mi ha dato un dollaro non mi ha nemmeno guardato in faccia. È stato il momento in cui ho veramente capito come ci si sentiva. Sono lo stesso Richard Gere che siete venuti a vedere e ascoltare oggi. Ma in quella piazza nessuno voleva vedermi, sentire la mia storia. È stata un’esperienza esistenziale molto profonda. Tutti abbiamo bisogno di essere «visti», riconosciuti. In quel senso, non vedo il protagonista come un homeless ma come uno di noi. Perché tutti aspiriamo a essere notati, accettati, amati, a ricevere dei segni di affetto, essere parte di qualcosa. E la negazione di questo bisogno umano fondamentale è cristallizzata dall’esperienza di un senza tetto. Avendo visitato molti ospizi vi garantisco che è sorprendente con quanta velocità ci si possa trovare nella condizione del mio personaggio, tagliati fuori da tutti e da tutto».