«Il concetto di “ricezione”, introdotto mezzo secolo fa da Hans Robert Jauss (1921-1997), ha ormai soppiantato quello di “tradizione classica”». Queste parole aprono il terzo capitolo di I classici dal papiro a Internet, piccolo gioiello della manualistica italiana recente (2012), largamente adottato nei sillabi dei nostri corsi universitari di discipline umanistiche. Il suo autore, Fabio Stok, ha premesso a questo esordio un pensiero di Gadamer, riportandolo in epigrafe; e prosegue concentrando in mezza pagina quanto serve per chiarire la sua affermazione iniziale. Il termine “tradizione” (dal latino trado, “consegno”) può far pensare a un patrimonio culturale che, sempre uguale a se stesso, viene ereditato dalle diverse epoche. In realtà, come già aveva mostrato T.S. Eliot in un suo celebre saggio del 1919, non è «assurda l’idea che il passato sia modificato dal presente, come non lo è che il presente trovi la propria guida nel passato». Nel discorso di Eliot, in effetti, la modificazione del passato ha luogo quando all’interno di un determinato contesto viene prodotta un’opera che influisce retrospettivamente sul canone, ristrutturandolo. Nell’ottica della ricezione, acquisita in modo sistematico agli studi classici attraverso il lavoro scientifico e politico di Charles Martindale, a partire dal 1993, il cambiamento dei testi, in particolare la diacronia del loro significato (un potenziale che continuamente si riattualizza), si spiega in quanto essi rispondono sempre a domande doppiamente condizionate: dalla storia dei loro effetti (riscritture, traduzioni, interpretazioni, usi didattici etc.); e dalla storicità e contingenza di ogni domanda umana (si pensi all’interpretazione messianica della quarta ecloga o ai modi sempre nuovi in cui “ci parlano” le opere che rileggiamo, rivediamo, riascoltiamo). I testi cioè sono instabili, nel loro significato, nelle loro relazioni e perfino nella loro forma. Vengono così fornite una costellazione di autori di riferimento (Eliot, Gadamer, Jauss, Martindale) e una serie di concetti-chiave (di cui è discutibile solo il primo) utili a tratteggiare una cornice teorica essenziale sulla soglia di un capitolo dedicato alla ricezione dei classici nel Medioevo, cioè a un tema storico, che siamo (o eravamo) abituati a considerare di pertinenza della tradizione classica.

Gli autori e i testi cui si riferisce la breve introduzione di Stok rappresentano in realtà una prima fase degli studi di ricezione, quella fondativa. Una certa distanza dagli sviluppi della teoria, abbastanza comune nella filologia classica italiana, ha favorito, in qualche misura, l’impoverimento critico dei concetti-guida (non nel caso del volume citato) e una conseguente tendenza ad applicare il termine “ricezione” a ogni fenomeno o ricerca che riguardi il Nachleben dell’antico. D’altra parte è vero che il ruolo sempre più importante giocato da questi studi nella teoria non è l’esito di una “svolta” ma di una sempre più articolata interlocuzione con indirizzi critici dominanti, dato l’interesse crescente che la comparatistica, gli studi culturali, certi nuovi indirizzi degli studi storici e naturalmente la traduttologia rivolgono ai fenomeni della riscrittura. Non ci può essere svolta comparabile, nell’evoluzione di questi studi, a quella che ha dato loro origine, inquadrando il rapporto del presente con il passato – cioè la vita della tradizione – come situazione ermeneutica. In tutte le discussioni in cui si cerca affannosamente un elemento comune tra i percorsi in cui il discorso sulla tradizione si incanala, spesso disperdendosi o ibridandosi in modo irreparabile, si finisce per ritornare a Verità e metodo, in genere senza farne menzione. Per Gadamer non possiamo mai uscire dall’orizzonte del presente e dei suoi pregiudizi per trasportarci nell’orizzonte del passato; piuttosto ci avviene di tradurre il passato nel linguaggio del presente, nel quale l’orizzonte del passato e del presente si fondono; di questo possiamo acquisire consapevolezza, una consapevolezza che ci aiuta ad aprirci all’alterità. Jauss per primo dipende ampiamente da questi assunti. Perviene a un certo punto a stabilire che la concretizzazione del senso nella lettura letteraria è il risultato di una fusione di orizzonti: da una parte l’effetto, come elemento condizionato dalla struttura del testo (Wirkung, l’interesse primario di Iser); dall’altra la ricezione, come elemento condizionato dal lettore (Rezeption). Ma quando mette a fuoco questa dinamica sull’asse storico-culturale piuttosto che psicologico-sociologico, Jauss è particolarmente interessato alle ricezioni che si traducono in produzioni di testi, in nuove creazioni, e in particolare a quelle creazioni che restano come “classici” per aver infranto l’orizzonte dell’attesa culturale e rideterminato il canone (di un genere o di un intero sistema letterario). In un altro aureo libretto di recente pubblicazione (2018), dove Ika Willis fa il punto sugli attuali studi di ricezione, un dualismo analogo a quello jaussiano informa l’esposizione, prima concentrata sulla text-to-text-reception (in cui ben emerge il ruolo degli studi latini nell’intelligenza dei processi trasformativi della tradizione) e poi sulla text-to-reader-reception (che esplora i modi in cui i testi sono incontrati, interpretati e ricevono risposte dal lettore). Nell’ultimo capitolo (intitolato Meaning) le quattro ragioni addotte per dimostrare che oggi non si possono più studiare i testi (letterari, visivi, musicali) senza tener conto della ricezione, ribadiscono in fondo quanto già stabilito all’origine di questo “cambio di paradigma”, negli anni ’60 del secolo scorso: il testo è co-prodotto dall’interprete; non c’è significato prima dell’interpretazione; l’interpretazione è sempre dialogica; non possiamo porre un limite alla polisemia del linguaggio senza appellarci a un’autorità extratestuale.

Viene invece persa di vista un’intuizione, divenuta un elemento di metodo nella prassi ermeneutica originaria, in base alla quale l’accertamento della dinamica storica della letteratura richiedeva una lettura ravvicinata dei testi – cioè un modo di lavorare più familiare al filologo classico. Introducendo il suo noto saggio sul mito di Anfitrione, del 1979, Jauss scriveva che la tradizione letteraria è un dialogo che si inizia quando l’autore posteriore lo riapre «scegliendo un autore più antico come proprio predecessore e trovando la propria domanda, che lo fa andare oltre la risposta del suo interlocutore». Questo colloquio a distanza può connotarsi anche di un altro significato: come Jauss osservava nel suo discorso epocale del 1967, accade che un testo non compreso nella sua prima ricezione attui il suo potenziale in seguito, anche dopo un lungo processo di ricezione, allorché l’evoluzione letteraria raggiunge quell’orizzonte rispetto al quale l’attualizzazione di una forma nuova permette di trovare l’accesso alla comprensione di quella più antica.

Sullo sfondo di quanto detto, proviamo ora a riprendere in mano un testo notissimo come A Silvia. Nei due luoghi dove il canto di Silvia giovinetta viene ricordato e quasi riascoltato dall’“io” poetico, cioè nella prima lassa (vv. 7-11 Suonavan le quiete / stanze, e le vie dintorno, / al tuo perpetuo canto / allor che all’opre femminili intenta /sedevi) e poi nella seconda (vv. 20-22 porgea gli orecchi al suon della tua voce, / ed alla man veloce / che percorrea la faticosa tela) echeggia un brano virgiliano, inconfondibilmente. Siamo nei versi iniziali del libro settimo dell’Eneide. È notte, le navi troiane lambiscono il promontorio Circeo, donde provengono suoni, odori, bagliori. Non se ne vede l’origine, per l’oscurità e perché una foresta impenetrabile scherma il mondo di Circe. La figlia del Sole fa risuonare i boschi del suo canto incessante (v. 12 adsiduo resonat cantu), mentre lavora al telaio (v. 14 arguto tenuis percurrens pectine telas).

Ma a sua volta il testo di Virgilio ne rielabora un altro. La sua situazione è sintesi delle due in cui, nei libri quinto e decimo dell’Odissea rispettivamente, sono introdotte Calipso e Circe, dee dalla voce umana che tessono e cantano udite da ascoltatori inseriti in uno scenario visibile, ma impossibilitati a vederle. Nel caso di A Silvia è stato riconosciuto in certi punti un intreccio di memoria virgiliana e omerica, mediata quest’ultima anche da traduzioni italiane illustri.

In considerazione di quanto detto, A Silvia può essere messa a fuoco come un episodio della fortuna di Virgilio (o di Omero), come un momento della tradizione classica o come un fenomeno della ricezione letteraria. Nel primo caso possiamo aspettarci che una nuova analisi si aggiunga ad altre senza iscriversi in un quadro di ricerche organico. Nel secondo, invece, dobbiamo aspettarci che il lavoro critico soddisfi precisi requisiti: come spiegano Silk, Gildenhard e Barrow nel loro ottimo lavoro d’insieme (2013), la tradizione classica implica le nozioni di continuità e valore; riguarda la continuità dei classici dopo l’età antica; e a tale continuità va rapportata l’analisi specifica, per quanto essa si applichi a un ventaglio di ambiti sempre più ampio e vario. Nel terzo caso si profila una congenialità a distanza che attira l’interesse sulla dinamica dialogica di domanda e risposta, la quale è attivata da un aspetto problematico riconosciuto nel testo più antico ed è segnalata da un elemento differenziale, nuovo, in quello che lo riceve.

Il punto della lirica leopardiana in cui più si mostra una differenza nella somiglianza, rispetto al testo di Virgilio, si trova al v. 22 ([ed alla man veloce] che percorrea la faticosa tela), dove “percorrea” è correzione dell’autografo (“percotea”) che avvicina ulteriormente il testo del presente al testo del passato (arguto tenuis percurrens pectine telas). Dunque è l’aggettivo “faticosa” l’elemento differenziale da cui conviene partire per verificare se il testo di A Silvia sia interessante o no dal punto di vista della ricezione. Il nesso “faticosa tela” completa l’immagine del gesto veloce della mano rilanciando il modulo quasi ossimorico introdotto all’inizio della poesia dal sintagma “vita mortale”; contrasta anche, vistosamente, con il suo originale antico, con il virgiliano tenuis telas, che però, in un certo senso, non è abbastanza eloquente sul piano esistenziale: la finezza del prodotto della tessitura non sembra emblematico della condizione di immortalità. Tenuis è in rapporto con la qualificazione divina del lavoro di Circe, ma in un modo assai concentrato, che invita a rivedere l’originale omerico (Odissea V 61-62 e X 221-223): «[Calipso] dentro con voce bella cantando / tesseva con l’aurea spola, muovendosi avanti e indietro intenta al telaio»; e «udivano Circe che dentro con voce bella cantava / muovendosi avanti e indietro intenta a una tela grande, immortale, quali sono le opere delle dee, / sottili e piene di grazia e di luce». Dialoga dunque, “faticosa tela”, con questo sottotesto virgiliano fortemente connotato dal tema esistenziale; ma allo stesso tempo la giuntura leopardiana segnala l’interesse del poeta moderno per l’operazione artistica di Virgilio, per il modo come egli ha selezionato e poi combinato nel suo testo i materiali omerici, infine trasformando una situazione ricorrente in una struttura espressiva. Da quella ricorrenza Virgilio ha ricavato un topos, ma appunto di natura diversa, non narrativa bensì tecnica; davanti allo sguardo moderno il poeta antico ha trovato, direttamente attualizzandola nei suoi versi epici, la formula del “lirico”. Fin da bambino Leopardi ha sentito il magnetismo del passo virgiliano; ne tratta poi nel Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, nel ’18, parlando dell’“impressione sentimentale” che i poeti antichi producono imitando gli “spettacoli sentimentali” della natura; e poi ancora il 16 ottobre del ’21, in una famosa pagina dello Zibaldone («È piacevole per se stesso, cioè non per altro, se non per un’idea vaga e indefinita che desta, un canto… udito in modo che non si veda il luogo da cui parte; un canto che risuoni per le volte di una stanza ec. dove voi non vi troviate però dentro… Vedi in questo proposito Virgilio, Eneide, VII, v. 8 ss. etc.»). Si è giustamente detto che la situazione di A Silvia è la definitiva incarnazione della “poetica dell’indeterminato” che troviamo tratteggiata in questa pagina. A Silvia è però anche poesia nuova, tematicamente, morfologicamente: segna una svolta nella carriera di Leopardi così come nella storia della lirica italiana. Dalla risonanza del canto di Silvia nasceranno i Canti; A Silvia, la prima canzone libera in senso pieno, è il primo componimento di quel nucleo che indurrà Leopardi a intitolare appunto Canti, nel ’31, il suo libro poetico. La modulazione lirica del dettato epico è un carattere dello stile virgiliano che non si trova mai così pronunciato come in questi versi; questa (relativa) anomalia è la “domanda” antica rispetto alla quale la “risposta” moderna è l’intuizione del poetico assoluto (cioè del lirico) e la sua acquisizione a un progetto moderno (la “poetica dell’indeterminato”) che “infrange” l’orizzonte di attesa della tradizione, dando luogo a un nuovo “classico”. D’altra parte, per la mente che ha constatato questo effetto dell’antico sul nuovo e l’istituirsi di una simile congenialità a distanza, quel testo antico non è più lo stesso di prima.

Mentre dunque A Silvia è un’opera del massimo interesse per gli studi di ricezione, per la tradizione classica ha un’importanza almeno a prima vista marginale, limitata alla documentazione di una topica (nel senso elastico che Curtius assegnava a questa categoria) o poco più. La sua importanza cresce se questo testo viene integrato nel contesto del dibattito testimoniato dal Discorso; o se gli viene riconosciuto un ruolo di mediazione nella continuità del classico in epoche successive, per esempio come lente attraverso la quale Pascoli legge Omero e Virgilio in Ultimo viaggio: il che significa di nuovo porre in essere le procedure critiche della ricezione. Del resto come è stato ben chiarito da Silk, Gildenhard e Barrow, i temi della ricezione non coincidono con quelli della tradizione classica, ma gli studi di ricezione sono uno strumento utile, talora indispensabile per accrescere la conoscenza della tradizione classica. Una virtuosa cooperazione che funzionerà, a parer mio, solo se gli studi di ricezione dell’antico continueranno ad avvalersi, nella loro prassi critica e dunque anche nei loro progetti formativi, delle conoscenze linguistiche, storiche, tecniche indispensabili per leggere “da vicino” i testi. Proprio perché i maggiori responsabili della vita della tradizione sono sempre stati uomini e donne che leggono bene, questo sapere istituzionale deve essere coltivato e messo anzi nelle condizioni di affinarsi sotto lo stimolo di nuove applicazioni.