Niente è più sciocco dell’affermazione secondo cui la virtù di un sistema elettorale sta nel farci sapere la sera delle elezioni chi governerà l’indomani. A smentirla, insieme a tante altre banalità oggi di moda, a riflettere sullo stato deplorevole dei regimi democratici, si è dedicato Antonio Floridia, con uno dei più originali contributi della scienza politica italiana dell’ultimo quarto di secolo: Un’idea deliberativa della democrazia. Genealogia e principi (Il Mulino, pp. 392, euro 29).

FLORIDIA ha coltivato la democrazia per un decennio quale responsabile delle politiche della partecipazione adottate dalla Regione toscana. Simili politiche sono state introdotte anche in altri paesi. In Italia c’è solo un’altra eccezione: l’Emilia-Romagna. L’autore, a frequentare la pratica, ha accumulato un considerevole sapere, riversato in questo libro.
Il tema, come si evince dal titolo del volume, è ciò che si suol chiamare la democrazia «deliberativa». È proprio necessario precisare che la democrazia è fatta per discutere? E che la discussione, rivolta a decidere, ne sia elemento costitutivo? Il moderno regime rappresentativo nacque come government by discussion. Le elezioni e i pronunciamenti a maggioranza erano in origine elementi secondari, i cui effetti divisivi andavano neutralizzati, mentre il principio di maggioranza era una soluzione estrema. Da ultimo invece tale principio è stato applicato in maniera indiscriminata.
Il punto di passaggio, che Floridia rievoca, l’hanno costituito negli anni ’80 le diagnosi sull’ingovernabilità, tra cui il Report della Commissione Trilaterale. Che hanno trattato discussione e compromesso come vizi, li hanno rigettati nel backstage, hanno esaltato la decisione, da assumere anche in spregio dell’avversario. Per istituire un’autorità monocratica in grado di decidere per tutti.

NON FOSSE CHE DA TEMPO la democrazia «avversariale», per usare la formula di Jane Mansbridge, rivela tutti i suoi inconvenienti. Ridotta a contesa elettorale, dopo aver favorito l’imporsi del neoliberalismo, palesa tutta la sua inadeguatezza di fronte all’odierna esplosione del pluralismo. Visto che la politica politicienne si accodava – si pensi al malinconico tramonto delle sinistre europee – è scesa in campo la teoria, o la critica, deliberativa, cogliendo sentimenti e disagi che nessun altro rappresentava. Non è la sola alternativa, ma c’è motivo di ritenere che sia culturalmente la più imponente, la più agguerrita e la più credibile. Predicando il dialogo razionale tra argomenti contrapposti, assumendo appieno il pluralismo, evitando di ricacciarlo oltre la sfera della rappresentanza e della politica, è ben diversa dall’alternativa plebiscitaria dei populisti, che forse tanto alternativa non è, ma solo un modo estremo di declinarla. Non è un caso che Renzi si trovi così a suo agio a cinguettare con i grillini e con Berlusconi.
Floridia si addentra con scrupolo nei labirinti della deliberazione. Dove si discutono le istituzioni democratiche e le loro modalità di funzionamento, così come sia conducono riflessioni, come quelle di Rawls e di Habermas, che mettono a tema addirittura la vita associata.

COME SI PUÒ VIVERE decentemente, rendendo più sopportabili e meno ingiuste le asimmetrie di potere? La teoria deliberativa non è solo normativa. Valorizza anche gli elementi di deliberazione di cui sono disseminate le società in cui viviamo. Ha perfino un intrigante versante applicativo, quello delle sperimentazioni deliberative. Adottando una prospettiva genealogica, Floridia dipana il suo filo: Mansbridge, Elster, Manin, Sustein, Cohen, Fishkin, fino ai due numi ispiratori: Habermas e Rawls.
Viva la deliberazione? Floridia non è ingenuo. Uno stile e un ideale deliberativo gioverebbero alla salute della democrazia: elezioni e maggioranze sono strumenti troppo rozzi per governare un mondo complicato. Il deliberativismo offre pure un contributo pedagogico: incita a ascoltare e rispettare l’altro, a elaborare scelte condivise, come tali più legittime. Ammesso che l’idea trovi gambe per camminare, residuano però enormi problemi. Due ci paiono più rilevanti. Il primo riguarda gli interlocutori del dialogo razionale. Proviamoci con un caso estremo. Come la mettiamo con gli argomenti razzisti e xenofobi? Come trovare un punto di accordo? Siamo certi che, se accettassero il confronto, perderebbero la loro carica democraticamente distruttiva? Anche queste, piaccia o non piaccia, sono visioni del mondo. La seconda questione è quella dei rapporti di forza. La svolta decisionista non è stata figlia del caso, ma dell’indebolimento di alcuni attori, quelli collettivi: partiti e sindacati. Che in precedenza andavano persuasi a restare leali, pacificandone la capacità di coagulare energie collettive e la forza contrattuale.

IMPORRE una reinterpretazione deliberativa della democrazia, non circoscritta alla localizzazione di una diga o di un aeroporto, dipenderebbe insomma dall’azione di qualche attore, che affianchi la teoria, non dalla bontà del suo stile. Lo stile deliberativo può forse aiutare a suscitarlo. Può rivitalizzare le esangui relazioni di rappresentanza. Un partito deliberativo sarebbe forse più attraente di uno mediatico. Ma non basta. Serve altro per reclutare un seguito temibile e farsi valere.