Le giovani madri continuano a desiderare di avere più figli ma il tasso di fecondità delle italiane sta progressivamente diminuendo a causa della crisi: le donne aspettano tempi migliori per mettere al mondo altri bambini. I giovani – maschi e femmine -, nel frattempo, sognano sempre meno di realizzarsi attraverso il lavoro, privilegiando da questo punto di vista di trovare un impiego che dia loro la sopravvivenza economica e standard minimi di tutela e vivibilità tra colleghi, a prescindere dal percorso di studi fatto.

Sono questi, due aspetti del profondo mutamento della società italiana con i quali presumibilmente ci troveremo a fare i conti anche qualora la recessione economica riusciremo a trovarcela alle spalle. Si tratta di due fenomeni che emergono dal primo estratto dell’imponente lavoro di ricerca che l’Isfol sta terminando per conto del ministero del Lavoro e delle politiche sociali in accordo con le istituzioni europee, in ambito statistico e di analisi delle dinamiche del lavoro, sui parametri del programma Europa 2020.

Nel convegno Isfol di ieri è stato presentato anche un abstract dell’analisi di contesto, che prende quindi in esame anche l’impatto della riforma del mercato del lavoro operata dal governo Renzi: gli otto decreti legislativi denominati Jobs Act.

In continuità con l’approccio strategico di estendere la cosiddetta flessibilità, su impulso della Commissione europea e dall’Ocse a partire dalla fine degli anni Novanta, la riforma- si dice nel rapporto – si pone l’obiettivo di passare dal privilegiare il rapporto giuridico di lavoro al mercato: un’operazione che, ricordano i ricercatori dell’Isfol citando gli studi di Michele Tiraboschi del centro studi Adapt fondato da Marco Biagi, di per sé non crea lavoro, non può essere considerata di per sé una politica di job creation, detto in termini tecnici.

L’imbarazzo dell’Isfol, che di fatto è un’agenzia governativa, sta nell’esaminare un provvedimento che in realtà unisce due misure diverse e considerate “non confrontabili”- un po’ come unire mele e pere – , cioè l’intervento volto a aumentare la flessibilità, leggi l’abolizione dell’articolo 18 per i neoassunti, e i pesanti incentivi alle nuove assunzioni con il nuovo contratto unico a tutele crescenti che, appunto, elimina la possibilità di chiedere la reintegra in caso di licenziamento ingiustificato.

Ragion per cui, dice l’Isfol, non è possibile sapere cosa succederà alla fine degli incentivi, pur registrando adesso – cioè con le misure di incentivazioni triennali vigenti – nella prima metà dell’anno, un aumento di 250mila contratti a tempo indeterminato (+29% rispetto allo stesso periodo del 2014) a fronte di una flessione marcata del lavoro parasubordinato (-19%, in stragrande maggioranza cococo) e una sostanziale stabilità del lavoro a termine (dalla Fornero al decreto Poletti questo tipo di lavoro subordinato a tempo è stato favorito dalla cancellazione della clausola di causalità per la scelta del datore di lavoro a discapito di quello a tempo indeterminato).

È in questo quadro che i ricercatori dell’istituto di corso d’Italia hanno realizzato un’indagine socio-demografica su fecondità, crisi e progetti riproduttivi intervistando 17mila madri italiane e 1.600 madri straniere. Ne emerge che le donne hanno avuto in media 1,37 figli a testa (1,29 le italiane, 1,97 le straniere) quando ancora cinque anni fa il tasso era 1,46 figli per donna.

Si sposano di meno, ma in maggioranza non per scelta, quanto perché procrastinano i progetti matrimoniali e di generazione a tempi migliori. Sei madri su dieci dopo il primo figlio dichiarano di non volerne più, di queste il 23,4% dichiaratamente per problemi economici, ma una su dieci per problemi legati al lavoro o conciliazione dei tempi di cura con gli impegni familiari.

Fa più impressione che quasi una madre su quattro abbia subito un licenziamento dopo il primo figlio e per una su cinque si sia comunque concluso il contratto di lavoro. Anche in chi smette di lavorare per libera scelta aumenta il numero di chi lo fa per insoddisfazione sul tipo di mansioni richieste o legate alla retribuzione (dal 6,9 al 13,5% del campione). Un lavoro povero come unica scelta che scoraggia l’occupabilità femminile, parametro in cui l’Italia è in coda a tutti i paesi europei, a poca distanza dalla Grecia.

Quanto ai giovani, l’indagine Isfol prende in esame un campione di 45mila persone dai 20 ai 34 anni di entrambi i sessi. La fotografia sociologica di questa popolazione statisticamente ponderata mostra come l’aumento dell’esclusione dal mercato del lavoro non corrisponde a un incremento delle persone impegnate in percorsi formativi.

Aumenta quindi il sottogruppo dei Neet, i ragazzi che non studiano e non lavorano. Ma non è più solo questo il fenomeno più inquietante, se ne aggiungono altri che riguardano “il depauperamento delle risorse cognitive e emotive delle giovani generazioni”.

Si è persa, dunque “una visione immaginifica del lavoro”, inteso dalle generazioni precedenti come fondamentale strumento di realizzazione dei propri sogni, di creatività e impegno sociale, di identità collettiva. Una eccessiva dose di realismo e disincanto ha creato dei giovani disillusi, quasi cinici, che cercano solo un lavoretto, con una retribuzione per sopravvivere e le maggiori garanzie possibili per non essere licenziati, indipendentemente dal tempo richiesto per svolgerlo, dalla creatività necessaria o dalla rappresentazione sociale, di ruolo, che dà.

Per i ragazzi intervistati il lavoro ha solo una funzione strumentale, finalizzato in maggior parte al mero sostentamento economico, lasciando alle attività extralavorative la funzione della realizzazione personale. La coerenza con il percorso di studi conta sempre meno (62,8%) a favore di buone relazioni tra pari nell’ambiente di lavoro (89, 8%) e retribuzione adeguata (93,7%) . Infine spicca il fenomeno che la laurea in materie scientifiche anche nelle regioni del Nord non dia maggiore probabilità di trovare una occupazione rispetto a una laurea umanistica. Mentre contano di più percorsi socalstici senza inciampi o ripetizioni di anni scolastici.