Quello che attrae in Stranger Things – almeno la generazione che alla metà degli anni Ottanta aveva l’età dei protagonisti della serie, in balia di acconciature, camicie sgargianti e scaldamuscoli di lana fucsia, cartoni animati giapponesi in sigle splendidamente arrangiate, quando non erano, al di là del «prodotto», muri in rovina, muschi, piante tuberose secernenti i loro verdi spermi come in un libro di Shulz; e la presenza enigmatica di una magnolia nei cortili delle scuole – non è la trama, l’azione dei protagonisti, i suoi svolgimenti di genere (del resto abbastanza risaputi, corrivi, e generati come da una partita a Dungeons & Dragons), ma una serie di situazioni pure, di contesti tratti fuori dalla storia, che funzionano come meccanismi di rimembranza spinta, tanto più efficaci quanto questa generazione vive ora la sua derelizione.

IL PROCESSO è risaputo: i padri che hanno preso tutto quello che potevano e che gli veniva concesso dal boom economico, togliendo risorse – forse loro malgrado – proprio alle generazioni che sarebbero venute. E d’altra parte i figli, cresciuti in ambienti borghesi o piccoli borghesi, con tutti gli agi del caso, quelli che contribuivano ad alimentarne l’immaginazione e la sensibilità fuori dal comune, i quali ora, condannati a questa appercezione, fanno i conti con una realtà ottusa, desertica, desertificata proprio da chi li aveva tenuti al riparo e pasciuti negli anni Ottanta.

Il meccanismo allora è di riconoscimento di ambienti familiari, crepitanti di nostalgia; e di ritrazione in queste situazioni pure, isole luccicanti ed elettroniche, nel mare degli anni Ottanta, che risuonano tanto dei Depeche Mode, quanto di Cindy Lauper o di Carpenter, come guizzavano allora i synth, nel lasso spurio, eterogeneo di un romanticismo sintetico, una sentimentalità estrema, quindi si direbbe una synthmentalità, delimitata ipoteticamente dai 17 re da una parte (alcune favole sospese in un iperuranio di ombre elettriche e fantocci senzienti, con una lacrima di vinile sulla gota di Pierrot) e da Never Ending Story dall’altra, con Dancing with Tears in my Eyes in mezzo, che poteva essere il ritornello di una disperazione, o solo di una profonda tristezza, sul dancefloor, nel mezzo di una festa di fine anno, nel mezzo dell’infanzia. Come quella posta alla fine della seconda stagione di Stranger Things, che accoglie totalmente questa synthmentalità, tanto più se si pensa al finale della terza stagione (disponibile dal 4 luglio su Netflix), alle lacerazioni, alle separazioni proprio nel momento in cui i personaggi si accorgono di crescere, di dover passare ad altro dai giochi infantili, sentendo già nostalgia per il passato ma non potendoci fare nulla.

È QUESTA nostalgia per gli anni Ottanta, cioè per l’infanzia (forse retorica come tutti gli atteggiamenti nostalgici), sentita con forza direttamente proporzionale all’elasticità e intensità di questo romanticismo in synth, l’effetto preminente di Stranger Things (nonostante i fratelli Duffer, nati nell’84, non possano che sentirne che un’eco), che evidentemente le nuove generazioni si perdono: quella ricerca del tempo perduto negli anfratti di un riff, di un film, ritorno al tempo di Ritorno al futuro, e di lì di un mondo che era già apoteosi del capitalismo, con i suoi centri commerciali, i suoi prodotti variopinti e luccicanti, in serie sugli scaffali, quelli che sfolgorano quasi in ogni scena di questa terza stagione, con un product placement radicale, ma che può essere letto anche come atto cinematografico, ostensione spudorata di quella fenomenologia del prodotto, come una versione postmoderna del correlativo oggettivo: i sentimenti del soggetto veicolati dal lucore delle cose di mercato, artificiali; per questo, ancora, una poetica della synthmentalità.

IN EFFETTI se il discorso su comunismo e capitalismo sembra per lo più corrodere entrambe le ideologie (lo Starcourt, nuovo centro commerciale di Hawkins, è di proprietà sovietica, e il capitalismo allora sarebbe impiantato direttamente dal comunismo per la perdizione delle anime occidentali), alla fine i fratelli Duffer sembrano propendere per il secondo, al luna park in occasione dei festeggiamenti del 4 luglio, quando Alexei riesce a vincere un pupazzo di Picchiarello al tiro al bersaglio, nonostante Murray gli avesse detto che sarebbe tutto truccato, che funziona così in America: i poveri vengono derubati, truffati dai ricchi.

Dopo poco Alexei morirà ucciso dal Terminator sovietico, ennesima ricontestualizzazione dell’immaginario di quegli anni, dopo Shining, La Cosa e La storia infinita (ma le citazioni sono innumerevoli) la cui rievocazione attraverso il canto incrociato di Dustin e Suzy è non solo conferma di quel pathos di plastica che aleggiava nel 1985, ma anche sospensione consapevole dell’azione – tra la meraviglia dei personaggi in attesa che la trama riprenda – per constatare e celebrare una situazione pura, infantile, nata come Combray, ma da un bicchiere di spuma.