Saranno gli agenti del fisco a prendere Donald Trump? Accadde già a Al Capone un secolo fa, e non è che non ci siano analogie. «Abbiamo scoperto prove significative che suggeriscono che Donald Trump e la Trump Organization hanno valutato in modo falso e fraudolento diversi asset per trarne benefici economici»: firmato Laetitia James, procuratrice generale di New York, protocollo n. 358 dell’archivio elettronico della Corte suprema. In 115 pagine, “Tisha” James risponde alla richiesta di Trump di annullare l’inchiesta newyorchese sulla Trump Organization per «manifesta parzialità» (James è democratica e quest’anno si vota). È il primo testo sulle accuse, una lettura appassionante, a tratti esilarante.

L’INCHIESTA è stata aperta nel marzo 2019, Trump era un presidente col vento in poppa e mai più pensava che un virus gli perturbasse gli indici economici e l’elettorato. In due anni gli indizi sull’allegra gestione dei bilanci di casa Trump sono diventati una montagna – come i suoi ricorsi per evitare il tribunale, sull’esempio di uno statista italiano.

Il patrimonio Trump, per l’accusa, è una zampogna: si gonfia o sgonfia a seconda se bisogna chiedere prestiti o pagare le tasse. Non si sa neanche esattamente quanto sia, il solo che ha provato a calcolare il volume della zampogna in funzione è Forbes, che gli ha assegnato un patrimonio 2,3 miliardi di dollari. Lusinghiero, ma la procura di New York racconta una storia diversa.

La cosa più divertente del j’accuse contabile è l’attico a geometria variabile. Quando chiede soldi, Donald dichiara che casa sua – il penthouse agli ultimi tre piani della Trump Tower, nel cuore di Manhattan – è di 30mila piedi, circa 2.800 metri quadri. Quando arriva il fisco, il superattico si contrae a 11mila piedi, circa 1.000 metri quadri. E non è il solo immobile mesmerico della proprietà Trump. Ad Aberdeen in Scozia c’è ancora chi sogna le «2.500 ville di lusso» nel Trump Golf Club, che invece erano permessi per «1.500 case-vacanza», ossia loculi. I terreni dei golf club di Westchester e di Los Angeles sono stati gonfiati con «ville di lusso» che esistevano solo nelle deduzioni fiscali. Il grattacielo al 40 di Wall Street, Trump lo aveva offerto come garanzia per 735 milioni di dollari: la banca lo valutò solo 257 milioni. Nel mirino anche il “Trump brand”, il valore di una proprietà col suo nome, un artificio contabile usato con generosità.

È LA STORIA NUOVA di un sistema vecchio. Donald Trump ha sempre e solo fatto così, le 4.000 cause e 6 bancarotte in carriera ne sono testimonianza, e l’Economist lo valutò «poor performance» nel 2016, l’anno della presidenza. L’inchiesta civile di James è una delle tante, insieme a quella penale per truffa del procuratore di New York Alvin Bragg, quella su 15 anni di dichiarazioni dei redditi che andrà in aula a New York quest’estate, quella in Georgia per l’infame telefonata al segretario di stato «trovami 11mila voti Brad», quella sul golf club di Westchester per evasione fiscale (oltre all’inchiesta parlamentare sull’assalto al Campidogio: ieri avviso a comparire per il suo legale, Rudy Giuliani). Coinvolti anche i figli: Eric si è appellato al quinto emendamento mesi fa, Ivanka e Donald jr sono stati citati insieme al padre.

IL SELF-MADE MAN, che partì con niente a parte mezzo miliardo del padre palazzinaro, è un’invenzione costruita su debiti possenti, proprietà ipervalutate e la presidenza degli Stati uniti. Persino il celebre Boeing 757 personale, il Trump Force One placcato oro, è fermo dal giorno della sconfitta. Dorme nel piccolo Stewart Airport, fuori New York, accanto agli aerei di una compagnia norvegese low cost.