L’Italia torna in deflazione e tocca i minimi da oltre mezzo secolo: l’indice è sceso dello 0,6% nel confronto annuo, come non accadeva dal 1959. Riccardo Realfonzo, economista e membro del Cda del fondo pensioni Cometa dei metalmeccanici italiani, ha pubblicato sul portale internet della Fiom uno studio sul futuro dell’euro. Gli chiediamo qual sia stato l’impatto delle politiche economiche del governo Renzi. «Le politiche di governo non hanno innescato la crescita perché si sono mosse nel solco dell’austerità. Anche la manovra 2015 ha previsto un cospicuo avanzo primario, e quindi un eccesso della raccolta fiscale sulla spesa pubblica di scopo. Considerati i moltiplicatori fiscali, l’impatto della manovra non può che essere restrittivo. Sarebbe stato necessario andare ben oltre il vincolo del 3% sul deficit».

Da Berlusconi a Renzi la disoccupazione è raddoppiata. Il contratto a tutele crescenti può aiutare a fermarla?
Ci sono innumerevoli studi internazionali, inclusi quelli dell’Fmi, che dimostrano che non esiste alcuna correlazione tra il grado di flessibilità del mercato del lavoro e l’occupazione. Sino ad oggi le deregolamentazioni del mercato del lavoro hanno cambiato la composizione dell’occupazione, riducendo il numero di lavoratori a tempo indeterminato e aumentando quelli a termine. E gli effetti più marcati sono stati quelli di riduzione dei salari. Temo che anche il Jobs Act favorirà la stagnazione salariale, non permettendoci di rilanciare la domanda e la crescita.

Che fare per proteggere i lavoratori da un possibile crollo dell’Eurozona?
Sia chiaro che la strada preferibile in Europa resta quella, politicamente sempre più improbabile, di una radicale mutazione delle politiche economiche, in senso espansivo e redistributivo. Ma se questa inversione di tendenza non si produce, resta valida la previsione che abbiamo elaborato con il “monito degli economisti” pubblicato dal Financial Times, cioè che uno o più paesi escano dall’euro. Questo potrebbe accadere presto alla Grecia e un domani all’Italia.

Lei ha pubblicato uno studio sugli abbandoni degli accordi di cambio del passato. Cosa insegna l’esperienza storica?
Che le ampie svalutazioni che seguono le crisi valutarie hanno generalmente avuto un impatto positivo sulla bilancia commerciale, favorendo le esportazioni e innescando talvolta processi di crescita significativi. Ma il mondo del lavoro ha pagato spesso un prezzo molto salato. Le inflazioni che seguono le svalutazioni hanno ridotto in maniera significativa il potere di acquisto dei salari e ancora di più la quota dei salari sul Pil. Anche l’occupazione spesso è restata al palo. Le organizzazioni dei lavoratori e le forze progressiste devono essere ben consapevoli di questi rischi. In caso di uscita dall’euro bisognerebbe adottare politiche di forte protezione del potere di acquisto dei salari, tipo scala mobile, e investire massicciamente nello stato sociale per garantire l’erogazione di beni e servizi in termini reali ai ceti meno abbienti.

Un esempio?
Proprio l’Italia, quando nel 1993 uscì dal sistema monetario europeo (Sme). Dopo due anni dalla crisi i salari reali si ridussero del 4%, mentre la quota dei salari sul Pil si ridusse quasi del 9%. D’altra parte la svalutazione fu seguita dai famigerati accordi di politica dei redditi, firmati anche dalla Cgil di Trentin, che non tutelarono adeguatamente il potere di acquisto dei salari. Nel caso italiano, la disoccupazione crebbe dal 9,70% all’11,20%. Da non rifare.

L’Italia è pronta per questo scenario?
Il governo insiste sul rispetto di vincoli europei che ci sta portando ad una situazione insostenibile. Assistiamo oggi ad un continuo aumento della disoccupazione, alla caduta dei salari, all’impoverimento del tessuto produttivo. O si ottiene un cambiamento radicale delle politiche europee o bisognerà attrezzarsi ad una uscita dall’euro. Ma che sia all’insegna di nuove politiche industriali espansive e di politiche di salvaguardia dei salari, altrimenti cadremmo dalla padella nella brace.