Ci sono storie di campioni dello sport che con le loro scelte coraggiose hanno combattuto contro la discriminazione razziale, politica o sessuale, ma anche regole ingiuste e tradizioni fuori dal tempo. Alcune di queste conosciute ai più, tante altre dimenticate se non mai rivelate.
Riccardo Gazzaniga con il libro Abbiamo toccato le stelle (Rizzoli, euro 16), servendosi di venti storie, racconta di atlete e atleti portavoce dei più alti valori umani e di come lo sport può cambiare il mondo.

Il libro prende vita quando a un certo punto ti concentri sull’uomo bianco ritratto nella foto della premiazione dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968, dove Tommie Smith e John Carlos con il capo chino alzano il pugno guantato di nero verso il cielo per rivendicare la tutela dei diritti degli afroamericani. Chi era quell’atleta?
Si chiamava Peter Norman, australiano, medaglia d’argento fra i due americani. Peter scelse di fiancheggiare a suo modo la protesta del pugno chiuso: si appuntò al petto la spilla del «Progetto Olimpico per i Diritti Umani» di cui Smith e Carlos erano attivisti. Pagò quella scelta non solo con forti critiche, ma anche con la successiva esclusione dalle Olimpiadi di Monaco 1972. «Piuttosto che portare me, per la prima volta l’Australia non portò velocisti alle Olimpiadi». Anche nel resto della vita Norman fronteggiò difficoltà, emarginazione, oblio. Alla sua morte furono proprio Smith e Carlos, andati in Australia a portarne sulle spalle il feretro, a raccontarne l’amicizia. (Dopo la sua morte giustizia è stata fatta e nel 2012 il parlamento australiano si è scusato con lui ufficialmente. Oggi a Norman sono dedicate persino delle statue, ndr).

Restando sempre nel 1968 c’è un’altra storia degna di essere ricordata ed è quella dell’atleta cecoslovacca Vera Caslasvka. Cosa fece questa donna?
Vera Caslavska è troppo poco raccontata come accade purtroppo, spesso, alle donne rispetto agli uomini. Eppure ha compiuto un gesto in tutto e per tutto simile a quello di Smith e Carlos. Lei, ginnasta cecoslovacca, sul gradino più alto del podio a pari merito con un’atleta russa, china il capo davanti al mondo per non guardare la bandiera dell’URSS che opprimeva il suo paese. Era considerata la donna più glamour del mondo, dopo Jackie Kennedy, ma il regime sovietico la cancellò, smise di gareggiare, non poté allenare, non poté emigrare, finì a fare le pulizie e lottò con la depressione, ma non ritrattò. Ha dovuto attendere la caduta del muro di Berlino e dei regimi dell’est Europa, per essere finalmente riscoperta.

Correre una maratona oggi è una cosa fattibile a chiunque senza discriminazione di sesso. Non sempre è stato così per le donne e a questo proposito racconti la storia di Kathrine Switzer…
Spesso ricordo agli studenti che leggono il libro che a volte diamo per scontati diritti costati tempo e lotte aspre, come quello delle donne di correre una maratona. Fino al 1967 non potevano partecipare alla maratona di Boston in quanto si riteneva, assurdamente, che la corsa di fondo danneggiasse la possibilità di avere figli. Kathrine Switzer, studentessa universitaria aspirante giornalista, non capisce perché lei che ogni sera corre decine di chilometri con l’amico maratoneta Arnie, non possa gareggiare. Così si iscrive con le iniziali con cui firma i suoi pezzi, senza indicare il sesso. Non vuole «infilarsi» in gara, ma esserci ufficialmente. Alla partenza sconvolge la gara, con il rossetto e i capelli lunghi. Un giudice di gara cercherà di placcarla, in corsa, ma con l’aiuto dei compagni di gara lei arriverà in fondo, prima donna a concludere ufficialmente una maratona.

Yusra Mardini è per te l’esempio di come lo sport può cambiare il mondo quando si fa portavoce dei più alti valori umani. Perché?
Yusra Mardini, ancora in attività, è una giovane nuotatrice siriana che ha dovuto fuggire dalla guerra. Yusra, pochi anni fa, da aspirante campionessa del Paese e studentessa, ha visto la piscina distrutta dalle bombe e il Paese devastato dalla guerra. Così è finita su un gommone che imbarcava acqua nell’Egeo cercando di raggiungere la Grecia. Per salvare le altre persone e i bambini a bordo si è gettata in mare, di notte, nel freddo, insieme alla sorella e ha nuotato verso riva spingendo la barca in salvo, dopo sei chilometri di traversata. Yusra è arrivata in Germania, ha nuotato per la squadra olimpica dei rifugiati e usa la sua gioventù, la sua mediaticità, la sua vicenda per raccontare le vicende dei rifugiati. La sua storia, per migliaia di storie non raccontate.

Talvolta capita che qualche atleta sia coinvolto in fatti poco edificanti. Quando succede tacciono o chiedono scusa, ma sottovoce. Nel libro tu ci parli del giapponese Shizo Kanakuri come per dire: prendiamo esempio da lui…
Il maratoneta Kanakuri è protagonista di una clamorosa défaillance alle Olimpiadi di Stoccolma 1912. Il Giappone ha raccolto fondi per farlo correre visto che Kanakuri si candida a una storica medaglia. In gara Shizo va in testa nonostante il caldo terribile, ma a un certo punto ha sete, così entra nel giardino di una villa, accetta una bevanda dal padrone di casa e si sdraia per un attimo di sosta. Kanakuri si addormenta e si sveglia a gara finita. La vergogna e il senso di disonore sono tali che fa perdere le sue tracce, viene dato per disperso e torna in Giappone di nascosto. Eppure in patria scopre di essere celebrato per la sua gara coraggiosa al comando. Negli anni, con lo stesso silenzio, Kanakuri, divenuto maestro di scuola, parteciperà a collette per sostenere giovani atleti che inseguono il sogno olimpico.

Vorrei concludere questa intervista chiedendoti che cosa rappresenta la copertina del libro dove un ragazzino è per mano a un calciatore?
In origine la copertina doveva rappresentare Gino Bartali. Nel libro racconto la storia di come Bartali salvò centinaia di ebrei, nascondendo nella sua bici documenti falsi. Ma era il disegno di un uomo solo. Ho chiesto allora all’editore di usare il disegno di Bradley Lowery piccolo tifoso malato terminale mano nella mano con il bomber Jermain Defoe (attaccante inglese con all’attivo oltre 170 goal in Premier League, ndr), che ha scelto di stargli vicino sino alla fine. Il tenersi per mano rimanda al verbo «toccare» del titolo. E guardano verso l’orizzonte, con un pallone sottobraccio: già questo racconta una storia. E mi piace che raffiguri un uomo nero e un bambino bianco, nel nome dell’uguaglianza.