Possiamo solo immaginare cosa possa voler dire per un delegato firmare per il proprio licenziamento e quello dei suoi 1665 colleghi: dopo le battaglie comuni, una lunga trattativa, il buio e lo sconforto. È accaduto la scorsa notte al ministero dello Sviluppo, quando i giornali di ieri erano già nelle rotative e riportavano tutti la stessa notizia: Almaviva, c’è l’accordo, le 2.511 procedure di mobilità sono congelate per tre mesi e si continua a trattare. E invece dopo l’ok dei sindacati e dell’azienda alla proposta Calenda-Bellanova (erano stati chiamati ad avallarla anche Camusso, Furlan e Barbagallo), da mezzanotte in poi si sono scatenate discussioni accesissime. Le Rsu, che hanno l’ultima parola perché riportano il mandato dei lavoratori, non erano d’accordo.

Non erano d’accordo soprattutto i delegati e le delegate romane, abituati a convivere con l’azienda dei Tripi già dai tempi di Atesia, brand mandato in soffitta perché collegato alla precarietà. In quindici, alle tre di notte compattamente hanno votato no. Mentre al contrario gli otto di Napoli hanno detto sì. L’accordo ha ricordato a molti il referendum di Pomigliano, proposto da Sergio Marchionne agli operai Fiat nel 2010 con un sostanziale aut aut: o accettate il peggioramento delle condizioni di lavoro, o il vostro posto semplicemente sparisce. Anzi, sarebbe meglio dire: emigra.

Oggi per i call center si ripropone la stessa dinamica, e non a caso accade nella Fiat delle cuffiette italiane, Almaviva: il maggiore gruppo del Paese, con quasi 10mila operatori telefonici e commesse assegnate dalle maggiori compagnie private e da grosse amministrazioni pubbliche. L’accordo siglato da azienda e sindacati prevede sì il congelamento dei licenziamenti fino al 31 marzo 2017, ma solo a patto che si riesca a raggiungere un’intesa su tre punti: l’abbassamento (temporaneo) del costo del lavoro, l’aumento di efficienza e produttività, l’accettazione di un controllo a distanza sulla produttività individuale. Si dovrebbe siglare, in sostanza, una deroga al contratto nazionale, autorizzata proprio da quell’articolo 8 voluto dal ministro Sacconi nel 2011, e sponsorizzato da Confindustria e soprattutto Fiat.

Lo stesso aut aut è stato posto sostanzialmente da Almaviva: accettate di lavorare di più le stesse ore ma con meno salario, o altrimenti noi abbiamo già aperto in Romania e le commesse le portiamo là. Parole mai dette esplicitamente, ma parlano i fatti. L’azienda chiede un taglio alle retribuzioni solo temporaneo, legato al periodo del risanamento, denunciando perdite ormai assestate sui 2 milioni di euro al mese. Perché è anche vero che il settore non premia chi applica i contratti e segue le regole, visto che le commesse scendono ogni anno di valore, trainate soprattutto (e con grande colpa degli ultimi governi) dai tagli choc delle amministrazioni pubbliche, che in molti casi bandiscono gare con base d’asta già sotto i livelli del contratto nazionale.

Le Rsu romane hanno spiegato di aver detto no all’accordo perché avevano ricevuto preciso mandato dalle assemblee dei lavoratori: nessun taglio ai salari. Certo, tutte assemblee precedenti: perché la proposta Calenda-Bellanova, arrivata a poche ore dalla scadenza della procedura di mobilità, non si è mai potuta portare a tutti i lavoratori. Riccardo Saccone, della Slc Cgil, accusa il governo: «Non ha svolto il suo ruolo di arbitro. Abbiamo chiesto che si potesse portare il contenuto di questo accordo alle assemblee, ma all’indisponibilità dell’azienda si è deciso comunque di andare avanti». Saccone spiega così il voto: «A Roma abbiamo tantissime persone a venti ore settimanali, fanno meno di 500 euro al mese: ridurre ulteriormente i salari fa perdere il bonus Renzi, ti porta sotto la soglia degli incapienti. E che trattativa vai a fare se comunque sai che nell’accordo c’è scritto che se non arrivi a certe condizioni i licenziamenti sono già concordati a priori?».

Diversamente l’hanno vista a Napoli: come ci spiega il delegato Slc Cgil Francesco De Rienzo, «noi, a differenza dei romani, non avevamo un preciso mandato dalle assemblee e non ce la siamo sentita di firmare per il licenziamento di 845 colleghi». «Ho visto la loro sofferenza – riprende – ma la reputo una scelta incomprensibile: noi sappiamo di avere davanti tre mesi difficili, ma abbiamo deciso di giocarcela». Tra l’altro essendo i delegati romani in quindici, e i napoletani solo in otto, si rischiava che la scelta dei primi potesse decidere anche per la chiusura del sito campano: quindi il ministero all’ultimo ha deciso di separare le due procedure.

La Fistel Cisl ha bollato la scelta dei delegati romani, definendola «irresponsabile». La Slc Cgil, spiegando che oggi si terranno le assemblee e martedì i referendum, afferma che se dovesse esserci un ripensamento a Roma, sosterrà la possibilità di un nuovo accordo con l’azienda.