Il primo processo per caporalato al Nord si è aperto venerdì a Cuneo. Sei imprenditori agricoli e un caporale rinviati a giudizio per lo sfruttamento perpetrato nei confronti di oltre 20 lavoratori nella zona di Saluzzo. Al tribunale di Cuneo si è tenuta l’udienza preliminare.

A chi pensa ancora che il caporalato sia un fenomeno limitato al sud, i racconti dei ragazzi – quasi tutti centro africani provenienti da Costa d’Avorio, Mali, Guinea, Burkina Faso, e un solo albanese – farà facilmente cambiare idea. «Molti di loro lavoravano di giorno nei campi a raccogliere la frutta e la notte in una cooperativa in quella che loro chiamano “la raccolta dei polli” – spiega l’avvocato di parte civile Valentina Sandroni che assiste due lavoratori iscritti alla Flai Cgil – . Alcuni lavoravano anche 20 ore al giorno, dormendo solo due ore prima di essere svegliati per essere portati allo stabilimento. Oppure che uno dei lavoratori si è sentito chiedere di pagare 304 euro per poter avere il Cud da presentare per il rinnovo del permesso di soggiorno: la cifra era pari ai contributi che l’azienda doveva versare per riconoscere le ore in più che naturalmente non aveva pagato al ragazzo nonostante ne lavorasse molte di più».

L’inchiesta della procura di Cuneo guidata dal procuratore capo Onelio Dodero è partita nel luglio del 2018 e ha portato ad un arresto e due misure cautelari lo scorso maggio. È stata ribattezzata «Momo», dal soprannome del caporale del Burkina Faso che teneva i legami con le aziende agricole a conduzione familiare: la Gastaldi, specializzata in raccolta della frutta (a Saluzzo negli ultimi anni è decollata la coltivazione di lamponi e mirtilli) e la cooperativa Monviso con lo stabilimento Gfb per il trattamento di polli e conigli: le persone rinviate a giudizio sono tutti parenti delle due famiglie. Sia il caporale che gli imprenditori rischiano dai 5 agli 8 anni di carcere perché al reato di caporalato vanno aggiunte la aggravanti di violenza e minacce.

L’inchiesta ha accertato tutti i crismi del reato di caporalato: utilizzo illegale di manodopera, il riconoscimento di salari difformi dai contratti nazionali e provinciali di settore, la violazione continua dei diritti fondamentali della persona, l’alterazione del corretto funzionamento del mercato del lavoro favorendo un sistema di concorrenza sleale tra imprenditori, la sottoposizione a controllo.

«Ieri in aula si è discusso molto rapportando la situazione descritta ai casi più noti di caporalato avvenuti in Calabria, Campania o basso Lazio. Ma il tentativo di sostenere che questo caso sia meno grave perché le condizioni dei lavoratori erano migliori va contrastato duramente: innanzi tutto non si era mai sentito parlare di 20 ore di lavoro al giorno e poi, se il contesto sociale è diverso, uguali sono le modalità di sfruttamento dei lavoratori», sottolinea l’avvocato Sandroni.

Molti dei lavoratori sono stati contattati e sindacalizzati attraverso il Pas (Prima accoglienza stagionali), la ex caserma di Saluzzo che dà loro rifugio, nata nel 2018 dopo la sollecitazione della Caritas locale con l’intervento di Regione Piemonte, Consorzio Monviso Solidale, Caritas, Cgil e Cisl, fondazioni bancarie e aziende.

«Abbiamo aperto uno sportello al Pas e in questo modo siamo entrati in contatto con più lavoratori potendo aiutarli: per esempio nessuno di loro sapeva che poteva richiedere la disoccupazione», racconta Davide Masera, segretario della Cgil di Cuneo, che nella prossima udienza di marzo si costituirà parte civile nel processo assieme alla Flai Cgil. «La nostra azione – continua Masera – ha portato ad un aumento dei contratti di lavoro nel collocamento di Saluzzo di ben il 25 per cento. È un dato clamoroso che si dovrebbe ripetere anche nel 2019: significa che la legalità è aumentata nel nostro territorio e che i lavoratori migranti hanno più diritti».