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Ribot, la raffinata provincia del realismo francese

Ribot, la raffinata provincia del realismo francesehéodule Ribot, "Les Plumeurs", 1862, Glasgow, The Burrell Collection

A Caen, Musée des Beaux-arts, "Théodule Ribot. Une délicieuse obscurité" Il focus su questo notevole comprimario nel movimento dominato da Courbet è frutto di una stagione di studî sempre più sensibile alle geografie laterali. Sobrio, serio, ritirato nell’Île-de-France, fu maestro nell’uso dei neri, e nel figurare cucinieri e pescatori. Come Manet, fu soggiogato, ma fino al plagio, dal Seicento spagnolo

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 4 settembre 2022
Théodule Ribot “Autoportrait”, part., ca 1887-’90, Lille, Palais des Beaux-Arts

Il realismo dell’Ottocento francese, signoreggiato da Courbet e, con meno prepotenza, da Daumier e Millet, vanta nondimeno notevoli figure di comprimari, ciascuna apportatrice di un differenziale che evidenzia la ricchezza di quel movimento, già testimoniata nella letteratura dell’epoca ma sempre meno leggibile nella ricezione posteriore. Il trio, scalato generazionalmente, François Bonvin – Théodule Ribot – Antoine Vollon, fino a tempi relativamente recenti quasi non esisteva più, oggetto di attenzione solo fra pochi amatori e specialisti. Oggi un lavoro di ricerca sempre più attento al ‘tessuto’, alle declinazioni particolari, alle geografie laterali, gli ha ridato luce e statuto.
Ribot, grande e sottile interprete del colore nero prima che cantore delle figure di cucina dal capo cuoco allo sguattero, è protagonista questi giorni della mostra a lui dedicata dal musée des Beaux-art di Caen, in Normandia (ultima tappa, fino al 2 ottobre, dopo Tolosa e Marsiglia; catalogo Lineart éditions). L’obscurité non è sempre délicieuse, come da sottotitolo: Gabriel Weisberg, uno dei curatori, avverte che le lamentele sullo sporco delle tele ribottiane si sono spesso risolte, nel passato, in pulizie radicali, nella distruzione della scala degli scuri su cui il pittore si era applicato amorosamente.
Normanno della minuscola Saint-Nicolas d’Attez (Eure) naturalizzatosi nell’Île-de France, dove tenne atelier prima ad Argenteuil poi a Colombes, Ribot, classe 1823, fu uno di quei provinciali, non infrequenti fra gli artisti francesi moderni, che vollero sottrarsi al chiasso delle dispute, persuasi del proprio angolo di mondo. Il senso spiccato dell’autonomia professionale, congiunto però alla modestia, gli valse la stima di diversi fra i colleghi, Fantin-Latour, Vollon, Whistler, Bonvin, il quale ultimo, nel 1859, mise a disposizione il suo atelier parigino di rue saint-Jacques per la prima uscita pubblica di Ribot, che vi espose accanto agli altri quattro, tutti implicati nelle ricerche ‘di realtà’ e per questo respinti dal Salon: siamo esattamente a metà strada fra il courbettiano Pavillon du Réalism, 1855, e il manettiano Salon des Refusés, 1863.
L’affascinante mondo di Ribot: sono vari gli ingressi. Nel 1844 si era sposato e installato a Parigi; dal ’46 al ’49 fu ad Algeri, geometra e capocantiere. Pressoché autodidatta, veniva da un’attività di pittore ‘applicato’, insegne per magazzini e carrozze, come, ai loro esordi, Watteau e Chardin, due modelli che saranno diversamente importanti per lui. Poco sappiamo degli anni giovanili, ma già nutriva, è sicuro, un interesse speciale per le scene quotidiane e feriali, interesse ravvivato, nel Maghreb, dagli stimoli dell’ambiente di lavoro, edilizia. Tornato a Parigi, si applica, per un piccolo mercante, nelle copie da Watteau o Lancret, ciò che accresce la sua dimestichezza verso gli antichi pittori, che furono per lui gli unici e veri maestri.
Prima dell’intermezzo algerino, Ribot frequentò, rimanendone impressionato, la Galerie espagnole, che Luigi Filippo in persona aveva aperto nel 1838 al musée du Louvre. Gli studî hanno chiarito come la pittura seicentesca lì esposta: Zurbarán, Murillo, Ribera, Cano, Velázquez, fosse malversata dall’abbondante presenza di copie e di falsi, ciononostante il giovane apprendista si familiarizzò con una forma di naturalismo primario che sentiva a lui propria. Via via poté specificare le sue preferenze con la degustazione degli spagnoli, più autentica, nelle collezioni di Laurent Laperlier e Louis La Caze, a cui aveva accesso per via dell’amicizia con Bonvin.
Il pieno intendimento del Seicento spagnolo si realizza per Ribot negli anni sessanta, quando anche Manet vi attinge, clamorosamente, facendo per giunta, insieme al critico d’arte Théodore Duret, il viaggio della penisola pentagonale (1865), dove non sappiamo, invece, se il nostro si sia mai recato. Comunque lo spagnolismo di Ribot ha poco a che fare con quello, modernamente velázqueño, di Manet, che stacca le sue ‘carte da gioco’ – Le Chanteur espagnol, 1862, Le Fifre, 1865 – nel vuoto delle ‘atmosfere’ color terra. Anche Ribot è tentato timidamente da analoghe soluzioni – Le Jouer de mandoline e Le Musicien, entrambi 1862 –, ma, in generale, annette la lezione di Velázquez in modo più… seicentesco, più antico: nella rusticità andalusa di certe nature morte – su cui si focalizzeranno poi i figli ed eredi di bottega Germain e Louise – come nella magistrale filtrazione di toni in ritratti e scene di genere, o domestiche, fin simili, nel periodo tardo, al camaïeu di Eugène Carrière, un altro folgorato dal Sevigliano. Non manca il confronto diretto con le magie velate di Chardin, negli anni in cui questi e l’intero Settecento francese erano caduti in sfortuna e subivano, come denunciato dai fratelli Goncourt, la «cospirazione della cecità»: sono i pittori che tengono in vita i pittori!
Fin qui il Ribot ‘genuino’. Perché si deve ammettere che il suo intrigarsi con Les Maîtres d’autrefois – per citare il libro anti-impressionista di Eugène Fromentin, di cui Ribot fu lettore appassionato – poteva contenere dei rischi in una personalità autodidattica e ‘assorbente’ come la sua. Si fece un’antologia mentale seicentesca: spagnoli, italiani, gli olandesi ‘di’ Fromentin, da cui pescare secondo un attrezzatissimo mestiere. Ecco così quella parte non secondaria del suo corpus, che sfiora quasi il plagio, dove rifà, specialmente, il «tremendo impasto» di Jusepe de Ribera e cerchia, le carni torturate dei martiri, quelle vizze dei vecchioni. Ci si può divertire, stimolati dai confronti in mostra (non sempre, però, còlti nel segno), a cercare le fonti di questo Ribot d’après, fra le quali – interessante! – non mancano i genovesi (Assereto).
Giunge a tali dipinti, a questo serrato confronto (seppure nel medio formato) con il grand genre, abbastanza tardi. A chi erano destinati? Il saggio in catalogo di Dominique Lobstein informa puntualmente sui suoi collezionisti coevi, a partire dall’elenco delle opere principali stilato nel 1885 da Louis de Fourcaud nella sua storica monografia: una rete sociale qualificata – vi spicca lo stesso Manet, insieme al pittore e incisore suo intrinseco Albert de Balleroy – la cui conoscenza smonta in parte l’immagine del pittore solitario, ritirato in provincia, bastevole a sé stesso. Non sembra comunque che i pastiches seicenteschi di Ribot rispondessero particolarmente ai desiderata dei suoi amatori, egli li concepì di preferenza per accreditarsi presso l’istituzione, ai Salons: il patetico Saint Sébastien martyr, che nel 1865 inaugura questo capitolo, fu infatti acquisito dallo Stato francese, come, in seguito, diverse opere dello stesso tipo.
In ogni caso va esclusa la categoria di eclettismo, trattandosi di un maestro che, per altri versi, sa essere stupendamente personale. Ha scritto, come avrebbero potuto farlo Carrière e, poi, Focillon: «L’œil fait vivre le visage, les mains donnent l’esprit aux têtes». Fu un solido e raffinato ritrattista: i suoi modelli sono perlopiù anonimi, schietta gente di popolo normanna o bretone. In questo genere, il ricorso a Rembrandt, il quale rappresenta nella congiuntura una vera e propria funzione, non ha nulla di mimetico, implica una ricerca materico-luministica del tutto connaturale, per definire l’espressione del vòlto che emerge dall’economia dei bruni: ne testimoniano al massimo grado la Tête de femme di Lione e l’autoritratto di Lille, in cui il vegliardo Ribot, occhiali d’acciaio e cappuccio alla pescatora contro le nevralgie, di cui soffriva acutamente, sembra fare a gara con Chardin nell’autoderisione e con Rembrandt per il sopradetto.
Les Pécheurs bretons e leur famille del Metropolitan, non in mostra: fra i ritratti di gruppo è l’exploit! In una fitta, paratattica, galleggiante teoria di facce, individuali e tipiche, ecco, dai nonni ai nipoti, il verace e salmastro racconto della povertà, centrato sugli occhi vividi, quasi assillanti, fissi sull’osservatore: ricorda alla lontana certi gruppi (anche pescatori) di un altro, di ben altre temperie e statura, capolavoro ‘marinaro’, il vaneyckiano Polittico dei Navigatori di Nuno Gonçalves.
La commozione umanitaria si fa vibrante spaccato sociologico nella corposa serie dei cuisiniers, vera novità iconografica introdotta da Ribot, il cui successo è testimoniato da Théophile Gautier, 1861: «Gli sguatteri di cucina non hanno più niente da invidiare ai becchini; anch’essi hanno il loro pittore, il loro specialista». Capo d’opera prima maniera, anch’esso non in mostra, Les Plumeurs, 1862, di Glasgow, Burrell Collection. Ma nel «côté pittoresque de la veste e de la casquette blanches» (sempre Gautier) non c’è solo la modestia cenciosa dell’istituzione, è celebrato anche l’interessante emergere della figura dello chef.
Lungo i decenni, sul soggetto sempreverde dei cuisiniers si può verificare l’evoluzione di Ribot verso una maniera sempre meno aneddotica, e più libera, ‘toccata’, generosa di impasti, fino a esiti quasi novecenteschi, come nel piccolo, sorprendente Mitron del museo di Marsiglia, in cui occhieggia Soutine. Anche al di fuori delle coordinate maggiori, un maestro serio e sensibile come Ribot poté dunque mettere il suo dito nel futuro.

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