Il nuovo libro di Mimmo Franzinelli, Disertori (Mondadori, pp. 389, euro 22), contribuisce a riempire di colori e di sfumature quella vasta zona grigia rappresentata, nei due anni di «guerra civile» seguiti all’armistizio dell’8 settembre 1943, dalla terra di mezzo fra i due estremi: la Resistenza, vale a dire l’impegno nel partigianato, da un lato, e Salò, vale a dire l’adesione alla Repubblica Sociale, dall’altro. Non tutti vollero o furono capaci di scegliere, e non mancano le opere, anche memorialistiche, dedicate all’una o all’altra di queste mancate scelte: si pensi ad esempio, fra le più recenti e le più sincere ed equilibrate, a Due anni senza gloria di Lodovico Terzi. Ma la gamma dei sentimenti e delle ragioni di ogni mancata scelta, buone o meno buone che fossero, fu comunque molto più ampia di quanto ciascuna di queste opere, da sola, potrebbe dare conto; così come sarebbe riduttivo, e perfino ingeneroso, racchiudere tutti i comportamenti in un generico disimpegno, in un immobilismo compiaciuto.

La realtà fu variegata, invece, e complessa: come ha scritto Goffredo Fofi proprio a commento di Due anni senza gloria, «la zona grigia andava insomma dal grigio quasi nero al grigio quasi bianco» e «non fu così raro che, nella difficoltà di alcuni di portare un giudizio, si oscillasse, si scegliesse per caso, o per superficiale infatuazione ribellistica». E del resto le medesime oscillazioni avevano caratterizzato, anche prima dell’8 settembre, l’intero periodo della guerra: l’Italia vi era entrata ufficialmente nel 1940 ma il vento aveva cominciato a soffiare in quella direzione almeno a partire dalla primavera del 1939. Ora questa variegata realtà viene osservata con uno sguardo che non la esaurisce ma l’abbraccia ampiamente: Franzinelli si concentra sui disertori e – poiché la diserzione poteva riguardare per definizione solo i chiamati alle armi (vuoi dal Regio Esercito, ricostituito dal Regno del Sud dopo la sua dissoluzione in concomitanza con l’armistizio, vuoi dalla Repubblica Sociale) – rimangono giocoforza esclusi i comportamenti di coloro che fecero o non fecero le proprie scelte al di fuori di qualunque costrizione militare. Ma l’indagine è comunque quasi sterminata, anche perché Franzinelli compone il quadro di quegli anni attraverso il racconto dei destini personali, che naturalmente sono migliaia; ed è uno sguardo, il suo, pieno di un’umana comprensione, che non solo viene dichiarata quasi a titolo programmatico all’interno del primo capitolo del libro, ma emerge ancora di più per fatti concludenti, in virtù del metodo storiografico prescelto.

La dichiarazione programmatica deriva da una citazione da Nuto Revelli: «Si può disertare non solo per viltà di sentimenti, per difendere la vita, ma in nome di valori ideali». Il metodo storiografico consiste nell’aver raccolto le storie dei disertori a decine; e nell’averle restituite al lettore in forma quasi narrativa, molto spesso anche attraverso le parole degli stessi protagonisti, recuperate nelle lettere o nei diari. Ne deriva appunto quella molteplicità di sfumature e di stati d’animo e comportamenti di cui parlavano Nuto Revelli o Goffredo Fofi: c’era chi disertava, nelle zone di frontiera (in particolare al confine con la Francia o con la Iugoslavia), per ragioni di vincoli culturali e sociali nei confronti delle popolazioni agli Stati confinanti, se non per un senso di maggiore appartenenza tout court a questi ultimi; chi per ragioni di vero e proprio rifiuto della guerra; chi per diventare partigiano, chi invece per darsi o tornare al banditismo (la guerra, sottolinea Franzinelli, era stata «un’occasione d’oro per i delinquenti», perché «le prigioni si aprono, a chi voglia difendere la Patria»; chi per necessità famigliare, per una scelta poco meno che necessaria «tra i doveri militari e l’aiuto ai familiari bisognosi»; chi perché, dopo l’8 settembre, considerava «chiuso il proprio impegno bellico»; chi, semplicemente, per paura; e c’era infine chi disertava ma solo per poco tempo, e tuttavia veniva ugualmente considerato disertore a tutti gli effetti. Nel complesso, a guerra conclusa i disertori furono circa duecentomila nel Regio Esercito e centomila nella Repubblica Sociale; e moltissime furono di conseguenza le condanne, detentive o alla pena capitale, sempre comminate all’esito di processi sommari (ma processi e condanne proseguirono anche nel dopoguerra, addirittura fino alla seconda metà degli anni ottanta).

Cosa rimane, alla fine di tutto ciò, oltre al quadro di questa umanità molteplice e variegata, che già da solo basterebbe a riempire la scena, oltre alle decine di storie tratteggiate, ognuna delle quali potrebbe generare un romanzo, oltre alla desolazione? Rimane, quasi paradossalmente, il senso di un’uguaglianza: al fondo, ciò che tutti i disertori volevano – chi per un motivo chi per un altro – era solo tornare «a baita», cioè a casa, proprio come il soldato Giuanin nel Sergente nella neve di Rigoni Stern.