Da quasi tre mesi, a Matera, si sperimenta un percorso d’integrazione dei rifugiati molto particolare. Tutto comincia dalla cartapesta, tecnica artistica con una lunga tradizione nella città della Basilicata. Il senso del progetto «La Rivolta delle Arance» sta tutto qui. Nel tentativo di raccontare storie drammatiche di migrazione, diverse e al tempo stesso simili, utilizzando un linguaggio, la cartapesta appunto, che parla di Matera molto più di altri.

È nata così un’iniziativa dal valore artistico, ma anche sociale e politico, nel suo pensare alla costruzione di un’identità migrante, gestita dalla Cooperativa Il Sicomoro con la collaborazione di due artisti locali, Raffaele Pentasuglia e Massimo Casiello, che hanno animato i laboratori. L’idea dalla quale partire era la rivolta di Rosarno del 2010, quando, in seguito al ferimento di due lavoratori extracomunitari, i braccianti stranieri presenti nella cittadina calabrese, per la raccolta degli agrumi, si ribellarono e si armarono di spranghe e bastoni.

Il ricordo di quei giorni, di quell’esempio di ribellione così forte, ha spinto i due artisti materani a una riflessione sulla condizione dei lavoratori migranti. Il fatto che questo sia avvenuto in una cittadina del sud non è un caso.

 

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Una protesta di lavoratori africani a Rosarno nel 2011 (foto LaPresse)

 

Matera non è direttamente interessata dal fenomeno drammatico dello sfruttamento del lavoro migrante in agricoltura. Rosarno è molto più a sud, i campi di pomodoro del foggiano e del potentino, con i loro ghetti e villaggi fantasma, abbastanza lontani da non essere percepiti. L’atroce sistema di sfruttamento della manodopera straniera, messo in piedi in quei luoghi, non è qui sentito come un problema, o, più semplicemente se ne sa poco o nulla. Matera non è quel sud, non vuole esserlo e non vuole guardarlo. Sempre più, soprattutto dopo la nomina a capitale europea della cultura 2019, la città vive di turismo, di strutture ricettive e ristoranti. Proprio per questo il progetto «La Rivolta delle Arance», che terminerà con un’installazione delle opere in cartapesta, che sarà inaugurata il 24 giugno prossimo, appare dirompente.

L’accoglienza diffusa

La Cooperativa il Sicomoro gestisce il progetto Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) del Ministero dell’Interno, in città e in alcuni piccoli comuni lucani. Il principio dello Sprar è quello dell’accoglienza diffusa. Non grandi centri con centinaia di ospiti, insomma, ma appartamenti, dove sono sistemati migranti arrivati da soli, famiglie monoparentali o nuclei con entrambi i genitori. In questo momento, in città, sono quarantadue i richiedenti asilo o rifugiati presenti nelle abitazioni messe a disposizione dalla cooperativa. Più di una ventina, tra loro, ha imparato a lavorare la cartapesta. Arrivano da Pakistan, Nigeria, Gambia, Senegal, e sono passati per la Libia, per poi arrivare in Italia con dei barconi. Hanno vissuto vicende differenti, ma con profonde similitudini. C’è chi scappa da un regime feroce, e chi proviene da zone dove la guerra è un elemento costante della vita quotidiana. Tutti sono accomunati dalla traversata del Mediterraneo. Raccontano del lavoro in Libia per pagare il viaggio, delle notti in centinaia su una barca, del salvataggio da parte della Marina Militare e poi dei centri di smistamento in giro per l’Italia. Fino a Matera.

«All’inizio – spiega Raffaele Pentasuglia – l’idea era raccontare alle ragazze e ai ragazzi migranti una caratteristica peculiare della nostra città: la cultura della cartapesta. Ci siamo resi conto, però, che oltre a insegnare questa tecnica di produzione artistica molto radicata in città, si poteva pensare di raccontare una storia, quella della rivolta di Rosarno del 2010, come momento emblematico nei rapporti tra Italia e flussi migratori negli ultimi anni. È stato – continua il giovane artista – un momento che personalmente ritengo cruciale, perché rappresenta forse il primo caso, nel suo genere, di presa di coscienza da parte di un gruppo di braccianti stranieri.

Una condivisione della storia

Questo progetto aveva certamente come punto d’arrivo un’installazione artistica di qualità, ma è stato fondamentale il percorso di preparazione, con i giorni passati insieme, per giungere a una condivisione di quella storia».

 

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foto di Luca Centola

 

Massimo Casiello, il secondo artista coinvolto nel progetto, spiega anche l’altro obiettivo di questa iniziativa. «Volevamo – racconta – che i materani diventassero consapevoli del dramma dei migranti. Lo spunto è stato Rosarno, il mezzo la cartapesta, perché è un linguaggio che qui tutti conoscono. È una sorta di lingua alternativa e comune. Lo è stata anche per noi con le ragazze e i ragazzi con i quali abbiamo lavorato».

Entrambi gli artisti sono concordi nel riportare la difficoltà iniziale, vissuta quando dovevano parlare dei fatti di Rosarno con i rifugiati. Temevano che la scelta di quella storia fosse percepita dai migranti come imposta dall’alto, quasi un esercizio di stile che li vedesse recitare il ruolo delle comparse.

In realtà il problema era un altro e i due l’hanno capito subito, in una maniera semplice e disarmante. Lo confessano mentre accanto a loro, una ragazza nigeriana tiene in braccio suo figlio, di qualche mese, e ci tiene a ribadire con orgoglio che il bimbo è nato in Italia. I migranti volevano sapere cosa avvenne a Rosarno sei anni fa, ma questa non era la loro idea di futuro. Non era quella l’Europa verso la quale erano scappati.

Da qui nasceva quell’iniziale rifiuto che si è trasformato in consapevolezza, mentre i busti in cartapesta dei braccianti che si ribellarono prendevano forma. È la storia di tutte le donne e gli uomini che devono partire, ma non per questo smettono di avere aspirazioni e speranze. È quella paura ostinata del fallimento quando indietro non si può tornare. È la storia di tutti i migranti.

Una nuova chiave di lettura

Sarebbe riduttivo parlare de «La Rivolta delle Arance» come di un’installazione artistica, di un percorso di potenziamento integrato nei corsi di lingua italiana, o di una sorta di apprendistato.

C’è molto altro. Questo progetto parla di un’integrazione possibile perché passa attraverso un linguaggio locale che si apprende e si condivide, che ha in sé una nuova chiave di lettura, quella dell’identità stratificata. Si può essere maliani, migranti, lavoratori agricoli e materani al tempo stesso. Si può essere tutto senza dimenticare niente, e si possono utilizzare linguaggi differenti. La cartapesta è servita a creare un’identità migrante e fluida, che ha portato le ragazze e i ragazzi rifugiati a riconoscere nella rivolta di Rosarno, la ribellione di un gruppo di sfruttati e non solo di migranti.

«Questa installazione racconta la storia di un NO» ribadisce Pentasuglia, mentre sistema le ultime cose prima di chiudere il laboratorio. Poi, per spiegarsi meglio, cita Camus: «Che cos’è un uomo in rivolta? Uno schiavo che in tutta la sua vita ha ricevuto ordini, giudica a un tratto inaccettabile un nuovo comando. D’altronde – conclude – la coscienza viene alla luce con la rivolta».

Serena Vigoriti, una della responsabili della cooperativa, dice che in molti arrivano a Matera con l’idea di ripartire. Spesso, però, capita che decidano di restare.