E’ quasi commovente il tentativo di parlare ancora dei subalterni e delle loro strategie organizzative. Pensieri e parole in controtempo, distanti, incapaci di suscitare interesse pubblico perché orfane di ingranaggi collettivi in grado di fecondarle. Fulvio Lorefice, in questo breve saggio dal tono accademico ma dall’afflato ideale, prende di petto la crisi di rappresentanza delle classi lavoratrici. Compito immane, eppure svolto con la giusta dose di irriverenza verso la smisurata bibliografia ormai prodottasi sull’argomento. L’assunto dal quale parte il ragionamento di Lorefice inquadra la vicenda nella sua processualità storica: la genesi e la successiva strutturazione del sistema dei partiti costituiscono il frutto della mobilitazione dei ceti popolari. Lo Stato, «da strumento di accentramento di potere nelle mani delle classi dominanti, si trasformò in uno spazio politico all’interno del quale quello stesso potere era contendibile dalle classi subalterne». Il sistema partitico, per come si è andato strutturando lungo il Novecento, non solo non descriveva una condizione amministrativa e indistinta della politica ma, secondo le parole di Michele Prospero, «nella loro declinazione di massa [i partiti] rappresentavano il simbolo di una egemonia culturale del movimento operaio, il fulcro di una democrazia organizzata secondo una prospettiva del tutto post-individualistica». La conclusione, che è posta come premessa dell’intero ragionamento, è allora netta e, per quel che conta, condivisibile: «il partito alla prova dei fatti è risultato in assoluto lo strumento più efficace di emancipazione delle classi subalterne occidentali. Più di ogni altro ha contribuito a rendere concrete e tangibili quelle che prima di allora erano mere aspirazioni». Se questa è la premessa storico-politica, si capisce allora in che direzione tende tutta la vulgata anti-partitica di moda in Italia da un abbondante trentennio. Una vulgata, è il caso di sottolinearlo, radicalmente trasversale. Ma oggi che il partito, almeno quello storicamente inteso, sembra essersi definitivamente eclissato, sostituito dalle più bizzarre forme del marketing politico post-moderno, come rilanciare «l’organizzazione necessaria dei subalterni», secondo la definizione posta nel sottotitolo del libro? E’ qui che il lavoro di Lorefice si fa più interessante e rischioso, prendendo in esame le due organizzazioni che più hanno suscitato simpatie nella sinistra italiana degli anni recenti: Syriza e Podemos. Lo studio dei caratteri organizzativi dei due soggetti porta l’autore a concludere che i due partiti fanno parte del problema più che della soluzione alla crisi di rappresentanza delle classi subalterne. Ambedue fortemente leaderistici, fluidi, televisivi e post-ideologici, sembrano funzionare solo se inseriti in un sistema che alimenta quella dispersione organizzativa che pure vorrebbero combattere. Alla presa del potere elettorale non può corrispondere una presa del potere sociale, e quindi una concreta inversione dei rapporti di forza, perché ambedue i soggetti decidono di non esercitare alcuna egemonia sociale, limitandosi a una grande destrezza tattica nel presentarsi fuori dalla partitocrazia corrotta. La soluzione alla crisi di rappresentanza del mondo del lavoro rimane giustamente inevasa. Non sarà questo o quel lavoro a dare risposta a un problema collettivo. L’intento di riaprire un dibattito sulle forme della politica è però da sostenere e incentivare. Ma è un dibattito che potrà dare i suoi frutti solo dentro un movimento reale, non dall’esterno.