I reparti di terapia intensiva e rianimazione sono il presidio sanitario che deve reggere l’ondata di malati gravi a causa del Covid-19, nella speranza che le ordinanze di questi giorni facciano rallentare il contagio. La prima ad andare in crisi è stata la sanità lombarda, che con il 16% dei posti di terapia intensiva a livello nazionale si è dovuta sobbarcare il 60% dei casi gravi. Anestesisti e rianimatori si trovano di fronte al dilemma di gestire un numero di pazienti superiore ai posti letto disponibili, operando scelte «moralmente ed emotivamente difficili», secondo un documento della Società Italiana Anestesia, Anelgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva (Siaarti). Il governo sta cercando di rafforzare i reparti, con nuove attrezzature: le prime a riceverle saranno Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto. Altre attrezzature per la rianimazione verranno recuperate dalle sale operatorie.
Ma predisporre nuove sale di terapia intensiva non è facile. «Normalmente le sale di rianimazione sono strutture costruite appositamente», spiega Luigi Riccioni, anestesista all’ospedale San Camillo di Roma. «Per attrezzarne una in condizioni di emergenza servono almeno un monitor per i parametri vitali, un aspiratore e un ventilatore polmonare per la respirazione assistita. Il ventilatore è l’apparecchiatura più importante e costosa e costa circa 30 mila euro». L’ingrediente più importante non sono però le macchine o gli spazi. «Servono i medici anestesisti e rianimatori, nemmeno gli pneumologi bastano in queste situazioni» spiega Riccioni. «E poi occorre personale infermieristico addestrato al monitoraggio, a effettuare procedure invasive, a rispettare i protocolli sulla prevenzione delle infezioni. Per la formazione di un infermiere specializzato occorrono mesi. Ma a un infermiere di sala operatoria bastano pochi giorni di addestramento per passare a un reparto di rianimazione in una situazione d’emergenza».
Riccioni è il responsabile del comitato etico della Siaarti. La società nei giorni scorsi ha divulgato un documento contenente raccomandazioni etiche per i medici che destato scalpore perché forniva dei criteri per scegliere i pazienti a cui negare cure intensive nel caso in cui le risorse non fossero disponibili per tutti. Qualcuno ha accusato i medici di un approccio cinico. «In realtà sono questioni che noi rianimatori siamo abituati a porci», spiega Riccioni. «Quando un paziente anziano o con altre malattie ha bisogno di terapia intensiva, ci chiediamo sempre se il trattamento sia opportuno dal punto di vista etico o al contrario risulta sproporzionato in quanto l’organismo debilitato non sarà ragionevolmente in grado di superare la fase acuta». Ora però le condizioni sono diverse. «Molti colleghi, soprattutto in Lombardia, si trovano in una situazione drammatica a prendere queste decisioni in tutta urgenza e ci hanno lanciato un grido di dolore. Noi abbiamo risposto con questo documento per dare loro un supporto». Nessun cinismo, dunque. «Non siamo noi a scegliere arbitrariamente di curare qualcuno e qualcun altro no», spiega Riccioni «è la situazione che mette il medico in condizione di fare questa scelta. Noi stiamo dando dei criteri per evitare di fare errori».
Il principio che si usa è quello della cosiddetta «medicina delle catastrofi”: «se una persona non ha chance, si dirottano le risorse su chi ha delle possibilità, e non su chi è arrivato prima in ospedale. Serve proprio a limitare l’arbitrarietà». Scrivendolo nero su bianco, l’associazione si è assunta comunque una responsabilità. «Se non avessimo scritto nulla, queste scelte sarebbero state affidate solo al buon senso del singolo medico».