Forse non è vero che le ultime parole di Jean Rhys siano state «More rouge, darling. Please, apply more rouge» («Più rossetto, cara. Per favore, mettimi più rossetto», Smile Please. An Unfinished Autobiography, 1979). Rhys aveva sempre esibito una elegante sprezzatura nella scrittura e nella vita, accumulando bevute, amori, matrimoni e divorzi, seguendo una necessità segreta che non spiegava, tanto profonda era la motivazione e inutile sarebbe stato giustificarla. Non voleva impegnarsi con la realtà, e la sfuggiva con una strategia repentina e decisa. Il suo no impreziosiva quel poco che lei si permetteva , e la sua frase asciutta e perentoria sta a dimostrare la sapienza delle sue negazioni e delle improvvise concessioni. Una scrittura erotica, benché casta e riluttante – una scrittura pre-edipica, forse. Ford Madox Ford aveva riconosciuto nei suoi racconti «un singolare istinto per la forma». Come altre sue contemporanee si comportava da protagonista già nella rappresentazione di sé che metteva in scena quotidianamente, prima che nella scrittura. Anche la sua lunga carriera (morì a 88 anni nel 1979) è frammentata da lunghe pause e improvvise entrée di successo. Era nata nel 1890 da padre gallese e madre creola, a Roseau, capitale della lussureggiante Dominica, una delle British Leeward Islands, indipendente solo dal 1978, e fino ai sedici anni era vissuta in quell’isola dove la luna gettava ombre profonde quanto il sole, e il sole a mezzogiorno poteva essere tanto forte da farti secco.
«“Sono una vera nativa delle Indie Occidentali” continuai. “Della quinta generazione, per parte di madre”. “Lo so, dolcezza me l’hai già detto prima.” “Non importa. Era un paese bellissimo”». In scena è la diciottenne Anna Morgan, forse vergine, trapiantata a Londra, ballerina di fila, che vuole chiarire le cose con il suo ricco corteggiatore. È la stessa Jean Rhys a parlare in questo Viaggio nel buio del 1934, ora riproposto da Adelphi nella stessa ottima versione di Delfina Vezzoli («Fabula», pp. 177, € 18,00). La sua isola è un posto dolcissimo dove lei, a dispetto della matrigna inglese, poteva chiacchierare con la servetta caraibica nel patois locale. «Sedeva a lungo cantando tra sé e battendo il tambou lé-lé, un colpo con la base della mano e poi cinque colpetti con le dita». Il rumore della pioggia sul tetto di lamiera è indimenticabile come il profumo dei fiori, e i morbidi sonni pomeridiani. «Le corde dell’amaca scricchiolavano, e c’era vento e le imposte esterne continuavano a schioccare come dei fucili. Era un posto rinserrato fra le colline come la fine del mondo. E l’erba era diventata marrone, bruciata dal sole» – questo nel giorno in cui le diranno che dovrà partire per l’Inghilterra. Anna-Rhys è consapevole che c’è tutto nei Tropici, la dolcezza come la tristezza della vita. «La loro tristesse deriva da un atteggiamento verso il buio caraibico, la pioggia , la vegetazione incontrollabile, l’ambizione provinciale delle città caraibiche dove la brutale replica dell’architettura moderna avvilisce le piccole case e le piccole strade» – ha scritto Derek Walcott in The Antilles: Fragments of Epic Memory.
Arrivata in Inghilterra fu quasi come nascere un’altra volta per la giovane caraibica. I colori, gli odori, il freddo, l’oscurità erano diversi. Inoltre il vivo ricordo si sovrapponeva alla nuda realtà; «la sensazione che mi davano le cose proprio in fondo all’essere era diversa». Si aggiungeva anche la difficoltà di leggere le righe scure e interminabili di parole nella pagina, l’incapacità di migliorare il proprio inglese, eliminando almeno la sua cadenza particolare. La grande città, Londra, era vissuta in piccoli frammenti: lo specchio, la stanza, le strade, le donne, gli uomini incontrati una sera … gli amori, le delusioni, i soldi, sempre i soldi, il vestito, le scarpe , il cappello … Tutto da ricomprare. Tutto sempre uguale, tutto ricominciava daccapo. In tournée era stata perlomeno in quindici città, e aveva dormito in camere tutte identiche, dove c’era sempre un armadio alto e scuro, e dalla finestra si indovinava una stradina stretta. «C’era il fuoco acceso , ma la stanza era fredda. Mi diressi verso lo specchio, accesi le luci e mi guardai. Era come se stessi guardando qualcun altro». La sua discesa nel demi-monde era iniziata con un grande amore per il suo primo amante, ricco, bello, cortese, che pagò per la sua deflorazione di minorenne con un modesto assegno mensile, accompagnato da una ricevuta da firmare. Lei pianse molto, e s’immerse ancor più nel sonno e nel sogno che diventò la sua vera vita. Così sopportò l’aborto – di cui la scrittrice aveva fatto esperienza diretta. «Le lunghe ombre degli alberi, come scheletri, e altre come ragni, e altre come polpi. “Sto bene, sto bene. Andrà tutto bene. Devo solo rimettermi in sesto e fare dei piani”. (“La sai quella del …”). Era una di quelle giornate in cui vedevi i fantasmi di tutte le altre belle giornate. Bevi un po’ e guardi i fantasmi di tutte le belle giornate che sono esistite, da dietro un vetro. (“Non male, ma tu la sai quella del …”)». La tenerezza è il filo di ferro che regge la disintegrata pagina ( e la giornata) della invalida, inerme, refrattaria Anna, non e un’eroina ma essa stessa forma e sostanza della sua pena, assente, incontrollata, inerte.
La grazia e la crudeltà della storia di Anna ha un seguito in Buongiorno, mezzanotte del 1939. Qui la stessa protagonista con qualche anno in più, vive nella notte della grande Parigi alle prese con i suoi assidui corteggiatori, tenebrosa lei stessa, sempre in scena con la fittizia energia dei tanti bicchierini. Ma ora non è più innocente. Ha fatto esperienza di ghost writer per una ricca signora che vorrebbe una fiaba scritta secondo certe sue esigenze estetiche: un giardino persiano, un’azione cataclismica, un flusso centrifugale, e belle parole lunghe in vista … «E Adler è più sano di Freud, non è così? E i giudici inglesi non sbagliano mai … Non è così? … Tutto un rimescolarsi nella stessa stiva. Nessun compartimento stagno». Rhys si fa gioco contemporaneamente di Anaïs Nin, Virginia Woolf, Dorothy Richardson e della tanto decantata «frase femminile», elastica, fluida, inconclusa, ma non come la sua, sfumata da un’angoscia intima che s’indovina nell’arresto che la tronca. Nel mirino della scrittrice postcoloniale sospetto che ci sia anche Joyce. Nell’ultima riga del romanzo, come l’irlandese Molly, la nostra nevrotica eroina apre le braccia al suo gigolò: «“Sì, sì, sì …” Così».
La dolce creola sradicata dal mondo edenico dei Caraibi che impazzisce nel freddo castello gotico del suo signore e padrone, l’inglese Rochester, brucia viva nell’attico dove lui l’ha confinata. Rhys ha messo a punto la sua vendetta nella favola amara di Wide Sargasso Sea, riscrittura di Jane Eyre di Charlotte Brontë, un successo arrivato tardissimo, nel 1966. L’amnesia è finita, la storia riscritta, i pezzi raccolti e la nativa energia antillana hanno fatto il resto.