Ha raccontato Jean Rhys che da bambina Dio se lo immaginava fatto come un libro. A volte, spiega con la sua visionaria esattezza, era un libro molto grande, lasciato chissà perché in posizione verticale e semiaperto, dentro cui poteva scorgere caratteri per lei del tutto indecifrabili. Altre volte era invece un libro piccolo, al suo interno non si vedevano caratteri stampati ma oggetti aguzzi e scintillanti. Ripensandoci, commenta in quella mai conclusa autobiografia per frammenti pubblicata all’indomani della morte con il titolo Smile Please (1979), il libro piccolo doveva essere in realtà l’astuccio da cucito di sua madre, gli oggetti scintillanti nient’altro che gli aghi disposti in file ordinate su cui si rifletteva la luce del sole. Più tardi Ella Gwendoline Rees Williams, questo il nome con cui era venuta al mondo il 24 agosto 1890 a Roseau in Dominica, imparò a leggere e passò più o meno il resto dell’infanzia a nutrirsi di libri: tuttavia non avrebbe mai perso, nemmeno quando a diciassette anni lasciò per sempre le Indie Occidentali, quella qualità sovversiva e acuminata dello sguardo che di ogni cosa rivela l’aspetto nascosto, coglie un’oscura, sfuggente verità.
È alla decisiva influenza di una tata, la perfida Meta, che Rhys attribuisce la responsabilità di avere colonizzato la sua immaginazione con presenze non più rassicuranti ma angosciose, molto meno divine che diaboliche. I lupi mannari, le donne vampiro, gli zombie dalle mani pelose di cui Meta affolla i suoi racconti, anche gli enormi scarafaggi capaci di affibbiare morsi inguaribili sulla bocca delle persone addormentate, costringono la picola Ella a trascorrere intere notti rannicchiata in un angolo del letto, con l’orecchio attento al rumore di ogni passo e la testa avvolta nel lenzuolo. A quella bambina Meta aveva mostrato una volta per tutte «un mondo di paura e diffidenza»: un mondo in cui la scrittrice ormai adulta sapeva di avere poi abitato per tutta la sua vita, in cui anzi sentiva di continuare a dibattersi anche allora, mentre ormai quasi novantenne lavorava alla stesura di Smile Please in un cottage del Devon così lontano dalle Antille luminose dell’infanzia.
Respirano in quello stesso mondo, si cibano degli identici terrori e delle medesime ossessioni anche i suoi libri, tutti benché in diversa misura ispirati al faticoso percorso di una spesso ambigua, comunque distruttiva storia personale. Lo attesta con ferrea trasparenza, per ampiezza cronologica e varietà di ambientazioni, la silloge di narrazioni brevi Io una volta abitavo qui, edita da Adelphi («Fabula», pp. 157, € 16,00) dopo i romanzi Quartetto (1928), Addio, Mr Mackenzie (’30) e lo straordinario Il grande mare dei Sargassi (’66), che spezzando un silenzio protrattosi per quasi trent’anni le portò un’inattesa notorietà. «Ma erano sempre le cose più normali a trasformarsi all’improvviso, a mostrare un altro volto, un volto terrificante. Era questo l’orrore nascosto, l’orrore responsabile di tutti gli altri orrori», pensa parlando per Jean Rhys la giovane Audrey, onnivora lettrice fissata con la vita degli insetti e protagonista di uno dei diciotto racconti ora proposti nella vibrante, limpida traduzione di Marisa Caramella e Laura Noulian.
Qual è l’orrore che le ragazze delle storie di Jean Rhys scorgono dietro l’apparenza usuale dei piccoli eventi quotidiani? Quali fattezze assume ai loro occhi il volto così terrificante della realtà? Soprattutto, che cosa hanno paura di affrontare? Per quanto la narratrice giochi a disporle su sfondi differenti, dalle sontuose magioni caraibiche alle maleodoranti pensioncine londinesi agli squallidi caffè parigini, le sue figure femminili condividono la stessa incapacità di adeguarsi all’esistenza e anche la stessa volontà di perdizione, uno spaesamento identico, un uguale disincanto nei confronti del futuro. Sono donne vulnerabili, dipendono dagli uomini che pure le rendono infelici, patiscono la solitudine e il freddo, molto spesso hanno fame. Tutte, benché le loro vicende siano modulate su sapienti variazioni, camminano sull’orlo di un abisso portando con sé una disperazione appiccicosa da cui non può guarirle né l’abbandono al caso, né il cinico umorismo, né le improvvise ma effimere accensioni di gioia per la bellezza di un vestito. Le protagoniste di Jean Rhys soccombono alla ferocia del mondo senza mai appartenere a niente o a nessuno: certo non a se stesse, forse nemmeno alle storie che attraversano.
«Non sarei mai stata parte di niente. Nessun posto poteva darmi un senso d’appartenenza, e lo sapevo, e tutta la mia vita sarebbe stata uguale: cercare d’appartenere e non riuscirci. Qualcosa andava sempre storto. Sono una straniera e lo sarò sempre», dichiara di sé guardando lucidamente la sua vita Jean Rhys ormai vecchia. Figlia di un medico gallese e di una creola di origini scozzesi, la bambina Ella era cresciuta da bianca in un’isola di neri, aveva studiato da protestante in un collegio cattolico: quando arrivò in Inghilterra per concludere la sua educazione diventò una ragazza delle colonie incapace di integrarsi in quella madrepatria così ostile, gelida, fumosa. Ribattezzata al suo esordio «Jean Rhys» dall’amante Ford Madox Ford, avrebbe lasciato la scuola per tentare l’avventura del teatro, collezionato improbabili storie d’amore e sposato tre mariti; sarebbe divenuta madre di due figli, il primogenito morto a sole tre settimane, vissuta oltre che a Londra a Vienna, Budapest, Parigi: era tuttavia destinata a mantenere quell’assenza di un fermo centro prospettico, quel punto di vista laterale, quello sguardo sghembo dell’estraneità che rende così esatta la sua pagina.
Scrivere fu per Jean Rhys una terapia indispensabile a fronteggiare ogni terrore: straniamento, rifiuto, sofferenza vengono medicati da un esercizio che per quanto necessario, istintitivo e spesso impetuoso, non sfuggì al rovello di lunghe, puntigliose revisioni. «Se riuscissi a metterlo in parole forse passerebbe, stava pensando lei. A volte ci riesci, o quasi, e così te ne liberi, o quasi. A volte puoi dirti: Ammetto di avere avuto paura, oggi», riflette l’anonima protagonista di uno dei racconti più inquietanti raccolti in Io una volta abitavo qui, scelta ricavata sia dal volume d’esordio The Left Bank (1927), sia dal più tardo Tigers are better looking (’68), sia dall’estremo e più noto Sleep it off, Lady (’76), l’unico tradotto in italiano, con il titolo Ci dorma sopra, Signora, per La Tartaruga nel 1982. Il criterio non proprio cronologico, piuttosto tematico e soprattutto atmosferico, adottato nell’ordinamento dei testi evidenzia l’economia degli strumenti espressivi: la tagliente raffinatezza dello stile di Jean Rhys si adatta con precisione entomologica tanto alla sua visione appassionata di una lugubre realtà abitata da deboli e sconfitti, quanto alla sua impassibile, vitrea esplorazione del buio mondo interiore.
«Dare forma alla vita, questo fa uno scrittore. Questo è così difficile», dichiarò in un’intervista rilasciata alla prestigiosa «Paris Review» pochi mesi prima della morte. Modernista lontana da ogni eccesso sperimentale, l’autrice usa una voce in apparenza naturale lavorando per sottrazione e per ellissi, compone con quel suo sguardo obliquo inquadrature nette, edifica strutture dall’aspetto lineare e tuttavia non esattamente mimetiche ma ardimentose. Ha scritto Nadine Gordimer, nata anche lei ai confini dell’impero, che il racconto è «più flessibile e aperto» del romanzo, offre al narratore una sconfinata libertà però allo stesso tempo lo inchioda a una tecnica rigorosa. Qualunque cosa potesse pensarne Jean Rhys, qualunque opinione avesse sui libri di racconti e in particolare sui propri, Io una volta abitavo qui custodisce alcuni degli aghi più acuminati, più rilucenti e implacabili di tutta la sua opera.