Rex Whistler, una tavola illustrata dei “Gulliver Travels” di Jonathan Swift, 1930

 

Allo scoppio del secondo conflitto mondiale il governo inglese fece compilare una lista di artisti che avrebbero potuto servire la patria impegnandosi nella propaganda. Rex Whistler si trovò arretrato nella graduatoria con la qualifica di illustratore mentre Cecil Beaton e Oliver Messel, che avevano studiato con lui, e con lui avevano condiviso le cronache mondane che raccontavano le eccentricità dei bright young things, ebbero collocazioni migliori. Erano sempre stati amici ma anche antagonisti, e ognuno di loro era uscito dalla Slade School of Fine Arts dove Rex, appena diciasettenne, era stato ammesso nel 1922. Era divenuto il pupillo del direttore, Henry Tonk, un ex chirurgo che favoriva la tradizione e lo studio dell’anatomia, forse per deformazione professionale.
Fu Tonk a imporre Whistler nel 1925 per il lavoro che gli avrebbe dato fama e che avrebbe costruito la sua carriera: la decorazione della sala da tè nel seminterrato della Tate Gallery, un ambiente lugubre, che il pittore alla sua prima prova trasformò in un diorama fantastico intitolato La spedizione in cerca dei cibi rari. Sette personaggi partono dalla magione aulica del Duca di Epicurania e percorrono a tappe un itinerario che si snoda sulle pareti della stanza come una lanterna magica, in un paesaggio stilizzato. Fu il successo di un ventunenne timido, con una passione per il disegno narrativo e una certa riottosità nel dipingere dal vero, come aveva già notato Tonk.
Per premio, oltre a una ricompensa dal parte del committente, l’antiquario Joseph Duveen, venne spedito con una borsa di studio a Roma, dove rimase folgorato da due geni della elucubrazione fantastica, Piranesi e il Pirro Ligorio di Villa d’Este. Da lì scrisse lettere esaltate ma anche consapevoli dei propri limiti: «sto cercando di dipingere gli alberi come e dove sono, non dove e come vorrei che fossero, e senza migliorare il reale colore dell’erba, che però mi sembra odioso».
Altre ne scrisse dalla vacanza con Steven Tennant, suo collega alla Slade. Tennant era ricco, malato di petto, vicino di casa dei conti di Pembroke, e trascinò l’amico nel lusso di una lunga escursione europea che gli fece conoscere i paesaggi di Claude e le malinconie di Watteau, e che finì in un’estate ruggente a Sanremo. Lì Whistler fece conoscenza con Edith Oliver, inquilina della rettoria di Wilton House, dimora dei Pembroke. La Oliver era una scrittrice di moderato talento, aveva trentatré anni più del pittore ma si legò a lui in una amicizia premurosa e in un epistolario a volte di una possessività asfissiante.
Il successo alla Tate definì il campo d’azione di Whistler al suo rientro in patria: la decorazione murale, un genere prediletto nelle dimore aristocratiche degli ormai avviati anni trenta. Tennant gli aprì le porte delle case dell’alta società britannica, che si contese il pittore, al meglio di sé nell’opportunità di dare via libera su grande scala a elucubrazioni basate su cose viste e atmosfere immaginate. Lavorò a Port Lympne, la casa nel Kent di uno dei più esigenti ed enigmatici gentiluomini dell’epoca, Sir Philip Sassoon. Lì coprì una parete della sala pranzo con una veduta ideale brulicante di personaggi che si aggirano fra edifici ben riconoscibili – il ponte palladiano di Wilton House, la facciata di St Martin in the Fields, i giardini di Stowe –, e sul soffitto simulò un padiglione a strisce bianche e azzurre. A Haddon Hall, proprietà dei duchi di Rutland, rifece il sopra camino della galleria inglobando un frammento di quello originario di epoca elisabettiana. Poi passò alla figlia dei duchi, Diana Cooper, già allora sacerdotessa indiscussa dell’eleganza, per cui dipinse una stanza della casa londinese con panoplie di strumenti musicali in un gusto neo-settecentesco alla de la Fosse, e i Mountbatten seguirono di lì a poco con un tema analogo. Per il marchese di Anglesey, genero dei Rutland, Whistler realizzò nel ’37 a Plas Newydd, nel Galles, una veduta marina lunga diciotto metri.
Ecco dove Piranesi e Ligorio tornavano utili: le dimensioni e la posizione stessa del dipinto – di fronte a una fila di finestre che guardano uno specchio d’acqua e in lontananza le vette di Snowdonia – potevano sopportare anche l’iperbolico. Whistler immaginò una città su un porto, con un arco trionfale e una chiesa romana (la copiò, come scrisse lui stesso alla Oliver, da quella del Santissimo Nome di Maria alla Colonna Traiana); un largo scorcio marino è interrotto dalla balaustrata in primo piano, da un tempietto diruto su uno scoglio, da un isolotto e da imbarcazioni in una fantastica reinterpretazione di Claude e dei vedutisti settecenteschi. La scena è muta, i personaggi sono scarsi e piccolissimi– solo in un angolo di una parete laterale, che Whistler trasformò in un illusionistico portico, si scorge un giardiniere che smette di ramazzare le foglie per guardare lo spettatore. È un autoritratto dedicato a una figlia del marchese di cui il pittore si invaghì perdutamente, ricambiato con condiscendenza (relazione troncata dalle lettere fastidiose della Oliver e dall’incapacità del giovanotto di passare ai fatti).
In quel silenzio trasognato c’è tutta l’anima dell’uomo malinconico dotato di una immaginazione quasi fanciullesca. Il fratello Lawrence, che fu il suo primo biografo, definì il lavoro per Anglesey l’apice della pittura di Whistler «alla de la Mare» poeta e scrittore idolatrato da Rex e da Tennant durante i loro anni di scuola. Walter de la Mare era in quel momento una delle punte di spicco della cosiddetta poesia georgiana e in lui il pittore ritrovava, sempre stando al biografo, «gli stati d’animo o le situazioni in cui compare un elemento di immobilità che sembra sospeso in modo indeciso fra l’innocente e lo sconcertante».
La fantasia dell’artista fece anche colpo su uno dei campioni del surrealismo, il poeta Edward James, che richiese a Whistler le illustrazioni per un suo libro. Era una delle prime volte che l’artista si cimentava in quello che diverrà poi il suo secondo motivo di fama e lo porterà a una celebrità ancor più popolare. Illustrò libri di ogni sorta, persino The Lord Fish dell’amato de la Mare, al quale i disegni piacquero molto ma non il proprio ritratto sull’antiporta, di cui criticò il naso sproporzionato. Il capolavoro, ristampato ancora al giorno d’oggi, resta i Gulliver Travels, un testo che offriva tutte le opportunità all’artista per invenzioni frenetiche e per citazioni erudite viste con un sottile umorismo. L’idea delle cornici di ogni vignetta con un brulichio di elementi decorativi, ad esempio, arrivava dalla lontana edizione del 1753 della Elegia di Thomas Gray per la penna di Richard Bentley.
Libri, teatro, murali, persino esilaranti pubblicità per la Shell impegnarono Rex per tutta quella indecisive decade che furono gli anni trenta. Il lavoro era faticoso e lento (per tutta la vita mantenne l’abitudine di tenere matita o pennello fra indice e pollice) e sembrava ci fosse sempre poco spazio per l’attività per la quale avrebbe voluto essere più apprezzato, il ritratto. Eppure possedette una capacità introspettiva notevole, come dimostrano alcune effigi – quelle della sua amata, del padre di lei, ma soprattutto quella propria, fissata pochi giorni prima che si arruolasse.
Nei lunghi mesi di esercitazione in patria fissò le sembianze dei commilitoni e persino del cuoco della truppa leggendone la sorte su sfondi arcadici velati dalla predestinazione. Era partito con un grave senso della fatalità, e la Oliver aveva scritto «Rex vuole morire in guerra». E così fu, nel 1944, in Francia. Aveva trentanove anni e doveva aver letto il bel saggio di de la Mare su Rupert Brook, poeta vittima nella Prima guerra, in cui era scritto come tutte le persone che possiedono una sproporzionata immaginazione, non importa a quale età muoiano, muoiono giovani.