Il «rischio ragionato» di riportare gli studenti in classe al 100% non aveva fatto i calcoli con le regioni, i presidi e, in fondo, con una realtà dove innumerevoli tentativi inefficace sono stati intrapresi per garantire il diritto all’istruzione in tredici mesi di pandemia. E così ieri è accaduto che Draghi, dopo avere scommesso sulla roulette della riapertura dal 26 aprile fino a giugno, ha cambiato posizione e si è risvegliato nei panni del custode del principio di precauzione.

Dopo avere chiuso le scuole per la variante inglese, e avere annunciato di volerle riaprire mentre la stessa variante è ancora dominante, il suo governo ha fatto marcia indietro. È già la seconda volta che accade da quando è in carica. Il primo muro Draghi l’ha preso al discorso sulla fiducia quando annunciò agli studenti che sarebbero tornati in classe «fino all’estate». Qualcuno si è reso conto che non c’erano le condizioni e che, comunque, sarebbe stata una vessazione. Marcia avanti e indietro, ingiunzioni paradossali, aporie, slanci populisti: è il modo in cui continua ad essere governata la scuola, e non solo

Dopo giorni sulle montagne russe create dall’annuncio sul 100% in classe il governo ha rimediato al caos che ha provocato accettando la proposta dell’Unione delle province (Upi) che prevede nelle zone gialle-arancioni il ritorno in classe minimo al 60%, in zona rossa le scuole superiori saranno in presenza tra il 50% e il 75%.

La presenza degli studenti tornerà, come sempre, ad essere regolata dal semaforo dei colori rosso arancione e giallo. Il resto resterò in «didattica a distanza» (Dad). E, come richiesto dalle associazioni di categoria, su tutto decideranno i presidi e, in fondo, le regioni. Queste ultime non potranno «derogare» alla decisione di riportare per 40 giorni gli studenti a scuola. Su questo il governo ha alzato la voce, dopo avere constatato la crisi costituzionale creata dal governo Conte 2 che ha giocato allo scaricabarile con le regioni sebbene avesse il potere di avocare a sé le decisioni anche sulle scuole in un periodo di emergenza sanitaria globale.

Tuttavia il diavolo si nasconde nei dettagli dell’articolo 3 della bozza del «decreto Covid». Sono contemplate «deroghe» alla scuola in presenza in «casi di eccezionale e straordinaria necessità». Questo rischia di lasciare troppa discrezionalità alle regioni che continuano con la Dad. Sta accadendo in Puglia dove il presidente Emiliano ha inventato il nuovo diritto costituzionale della scuola «on demand» («a richiesta», detta anche à la carte). Per non prendere la responsabilità di una situazione che non riesce a governare fino al 15 maggio il peso della decisione se mandare un figlio in classe continuerà ad essere scaricato sulle famiglie. Tale modello ha suscitato l’interesse del presidente del Veneto Zaia. In precedenza era stato seguito da De Luca in Campania e poi dalla Calabria.

Il problema non è solo la zona rossa. Nelle altre la bozza parla di «flessibilità» tra il 60 e il 100% e, nei fatti, riconosce la situazione esistente: l’impossibilità di garantire la frequenza perché, in più di un anno, non è stato risolto il problema delle «classi pollaio», non è stato costruito un vero sistema di tracciamento, nessuno è venuto a capo del rebus sui trasporti. E non è stata completata la prima dose del vaccino ai docenti e al personale dopo il caos su AstraZeneca. Ad oggi non si sa quando le restanti 335 mila persone lo faranno.

Scuole aperte e chiuse, punto e a capo. Di nuovo. Manca poco più di un mese alla fine del secondo anno scolastico pandemico. Il terzo resta un’incognita