Dietro la retorica da padrone delle ferriere del ministro delle finanze olandese Dijsselbloem («mi raccomando buonuomo, non se li beva tutti all’osteria») si nasconde la configurazione dell’Europa come spazio gerarchico.

Di cosa si parla, quando si parla di «Europa a due velocità», se non di una divisione del lavoro basata su un centro propulsore – l’ex area del marco – dedito alla haute finance e all’alta specializzazione tecnologica, e una periferia mediterranea e orientale che fornisce manodopera a basso costo e prodotti a bassa intensità tecnologica?

Permettendo così al centro di inserirsi in maniera virtuosa sui mercati mondiali, ottimizzando i costi? Giustificare la subordinazione in base a presunte caratteristiche morali – il Sud spendaccione dedito ai bagordi, il Nord austero e intraprendente – è da sempre parte integrante di ogni retorica coloniale.

Già al momento della stipula dei tratti di Roma, Riccardo Lombardi, che pure aveva preso la parola in Parlamento per annunciare la svolta europeista del Partito Socialista Italiano, aveva denunciato i rischi di una costruzione liberista europea, destinata a riproporre su scala continentale il dualismo Nord/Sud che l’Italia aveva già sperimentato nella costruzione dello Stato unitario. Ed il trattato di Maastricht, per chi lo avesse saputo leggere, conteneva sostanziali elementi propizi alla formalizzazione di un modello di sviluppo fortemente squilibrato. La crisi ha senz’altro accelerato questo dualismo nella costruzione europea: la “cura” imposta alle economie periferiche per ripristinare gli equilibri di bilancio, e salvare così i grandi gruppi bancari metropolitani fortemente esposti, ha prodotto un ulteriore impoverimento degli apparati produttivi dei paesi governati direttamente dalla troijka, o che comunque, per evitare “l’arrivo della troijka”, hanno applicato le misure draconiane da essa “suggerite”. Privatizzazioni, tagli alla scuola e alla ricerca, decurtazioni dirette e indirette del salario (la trinità del breviario della troijka) si sono rivelate esiziali. Perché non c’è sono sviluppo senza un ruolo dello Stato nei settori strategici; perché una scuola e una università impoverite producono solo manodopera dequalificata e bassi tassi di innovazione; perché salari stagnanti permettono al capitale di valorizzarsi non attraverso l’innovazione, ma scaricando sui lavoratori i costi della competitività.

Se si restringe il perimetro della riflessione ai gruppi dominanti, si è trattato di un gioco virtuoso, se non di un vero e proprio capolavoro: le élites metropolitane hanno distrutto potenziali bacini di concorrenza, lucrato sul bacino di manodopera disoccupata delle periferie, allo stesso tempo comprandosi la pace sociale interna con salari aumentati (almeno nei settori di punta) e stabilità finanziaria necessaria a garantire la rendita pensionistica integrativa di una classe media anagraficamente invecchiata; le oligarchie periferiche, dal canto loro, si sono prontamente inserite, seppure in via subordinata, nello schema dominante, cedendo volentieri al “ricatto del debito” per aumentare il proprio potere di classe, senza alcun riguardo nei confronti dell’interesse nazionale. La crisi ha di fatto sancito la costituzionalizzazione del programma illustrato da uno dei maggiori architetti italiani dell’europeismo reale, Tomaso Padoa Schioppa: «Un programma completo di riforme strutturali deve oggi spaziare nei campi delle pensioni, della sanità, del mercato del lavoro, della scuola e in altri ancora. Ma dev’essere guidato da un unico principio: attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere». Quando si parla della crisi della sinistra italiana, non si può non riflettere sul ruolo di principali garanti di questa via subordinata all’inserimento del Paese nel mercato globale giocato dalle coalizioni uliviste.

A fronte della vastità e coerenza di una tale offensiva, non possono essere presi sul serio i cicalecci sciovinistici del renzismo, tutt’altro che alternativi al disegno gerarchico, ed anzi ad esso riconducibili, salvo lo strepitìo teso ad ottenere margini di manovra per indorare la pillola per i gruppi dominanti – è il caso lampante degli sgravi fiscali concessi in occasione del varo del job act. In questo consiste l’elemento caratteristico della filiazione del renzismo dal berlusconismo. Un processo alternativo di integrazione democratica deve basarsi sull’esatto rovesciamento della leva liberista: rinnovato intervento pubblico nei settori strategici per lo sviluppo; massiccio finanziamento alla scuola pubblica e alla ricerca; forte investimento nel welfare; smantellamento delle leggi contro il lavoro e crescita salariale, come via per costringere le imprese a concorrere sul piano dell’innovazione e non del ribasso dei diritti dei lavoratori.

Un programma di questa portata non sarebbe probabilmente compatibile con gli attuali rapporti di potere all’interno dell’eurozona, e forse neppure con la loro sanzione istituzionale vigente. Ma al di fuori del sovvertimento dell’Europa gerarchica non c’è spazio per la costruzione di uno spazio continentale integrato e democratico.