A Sarajevo, il 28 giugno 1914, due colpi esplosi dalla Browning semiautomatica di Gavrilo Princip accesero la miccia del Secolo Breve, nel quale l’Italia mise incautamente piede, con le scarpe già rotte, l’anno successivo. Bisognava strappare Trento e Trieste ai tentacoli della piovra d’Asburgo e il 23 maggio, sperando in una soluzione veloce, il governo Salandra dichiarò guerra all’Austria-Ungheria. Sono passati cento anni. Con il conflitto mondiale deflagrarono i nazionalismi, accelerando il crollo degli imperi centrali, e le masse irruppero in politica, su ponderata concessione di cerei stati europei che ritennero meno grave lasciarle in pasto agli incipienti fascismi. Iniziò con un bagno di sangue quella che Hobsbawm ha definito «L’età della catastrofe», terminata in Italia settanta anni fa, con l’invito all’insurrezione comunicato via radio alle 8 di mattina di un 25 aprile.

Del catastrofico trentennio resistono nella memoria storie reali e immaginate, scritte su carta, impresse sulla pellicola, lavorate nella pietra. Dei militi ignoti insepolti, nei campi di grano lontani dal Vittoriano, resteranno appena le ossa tra mille papaveri rossi. Rimasero invece a lungo i mutilati: quasi 500mila nel primo conflitto, 350mila nel secondo. E mentre si moltiplicano gli appelli per la riabilitazione giuridica dei soldati italiani fucilati per disobbedienza, cadono in abbandono i monumenti costruiti per gestire il costo sociale dei superstiti. Nel disinteresse generale, va sottolineata l’iniziativa presentata in occasione della XXII edizione del Salone del restauro di Ferrara, dal Dipartimento di architettura dell’ateneo estense, coordinato da Rita Fabbri. «Lo studio, sviluppato a partire da una prima tesi di laurea sulla Casa del Mutilato di Forlì, è stato esteso anche a ottanta edifici analoghi, tra cui quelli di Alessandria, Napoli e Piacenza, costruiti tra il 1927 e il 1966, e ha lo scopo di recuperarne alle cittadinanze la fruibilità», ha spiegato Fabbri.

L’opera di Forlì, firmata da Cesare Bazzani, fu inaugurata il 4 novembre 1933 in via Maroncelli, nel giorno dell’anniversario del Bollettino della Vittoria, nell’anno dell’ascesa al potere di Hitler. «Ex sede della Loggia Massonica Aurelio Saffi, il massone Bazzani la ridisegnò in forma templare, sfruttando un bagaglio allegorico che ben conosceva», hanno precisato Andrea Dolcetti e Daniele Felice Sasso, autori della tesi. Alla proliferazione di inutili monumenti aveva messo un freno un decreto del 1927, pensato per incanalare i fondi disponibili verso la costruzione di ricoveri con funzione previdenziale, dotati sia di ambulatori e sale protesi, che di spazi educativi e ricreativi.
Il regime colse così l’occasione per rinfocolare la sua simbologia in luoghi emblematici più vicini alle necessità delle famiglie rispetto agli altari e alle statue ancora onnipresenti nelle piazze italiane, con le loro colonne infami di nomi, cognomi e date di nascita.

Una stratigrafia figurativa, tra l’horror vacui e la vanagloria, fu a maggior ragione approntata nella «città del duce» – Predappio dista 15 chilometri – dallo stesso architetto della Biblioteca Nazionale di Firenze e della Galleria nazionale d’arte moderna di Roma.

Elmi, baionette e granate da una parte; dall’altra, a chiudere il cerchio, corone di spine e calici. La bella morte e la mistica del sacrificio di un Cristo combattente, con buona pace di «chi diede la vita ebbe in cambio una croce». Il restyling della Casa del Mutilato, per il quale sono stati scelti materiali estratti e lavorati localmente e con elevato contenuto di riciclato, ha voluto rendere nuovamente leggibile una architettura parlante. Il risultato è un restauro sostenibile che, per recuperare il monito di un linguaggio dittatoriale, combina un archivio digitale dedicato al Novecento con il reinserimento dei cimeli bellici come arredo degli spazi museali.

«La presentazione presso il Salone di Ferrara ha voluto ripercorrere il progetto di rifunzionalizzazione della Casa del Mutilato di Forlì attraverso l’applicazione del protocollo Gbc Historic Building», ha aggiunto Paola Boarin, coordinatrice del comitato per Gbc Italia. Secondo l’architetto Marco Zuppiroli, «dopo la sperimentazione, tale strumento potrà essere utilizzato per orientare e trasformare i processi edilizi sul patrimonio storico verso pratiche di sostenibilità trasparenti e certificabili, promuovendo l’allineamento delle best practices italiane alle più importanti politiche di sostenibilità degli edifici internazionalmente riconosciute».